La nostra «civiltà»: genocidio e antisemitismo

Un testo puramente accusatorio: equipara le democrazie occidentali a un progetto di “genocidio” senza presentare fonti solide né riconoscere la minaccia armata che Hamas continua a rappresentare. L’articolo ignora contesto, diritto di autodifesa e complessità del conflitto, sostituendoli con una lettura ideologica che cancella i fatti. È il pezzo più distorsivo della giornata.

Ormai l’Occidente vede in Israele non tanto uno degli esiti violenti e dolenti del suo razzismo, il risultato contorto del suo antisemitismo storico, quanto il baluardo della civiltà occidentale. Così funziona come uno scudo contro qualsiasi critica allo stato coloniale sionista. E l’Olocausto viene trasformato in un monumento metafisico che blocca ogni critica all’autorità morale dell’Occidente. Ambedue – Israele e il custode occidentale (in particolare tedesco) dell’Olocausto – sono esclusi dai giudici della storia. Emersa dalla negazione del genocidio in atto nel Mediterraneo orientale, come quella della Nakba e dei tanti genocidi che hanno segnato la nostra modernità, si è instaurato un meccanismo, da destra a sinistra, che mira a controllare e indirizzare gli spazi della discussione pubblica. La questione dell’antisemitismo e l’insistenza sull’unicità (e non sulla specificità) dell’Olocausto servono sia a difendere le azioni di Israele e a blindarlo da ogni critica, sia a evitare qualsiasi risposta ponderata da parte delle istituzioni occidentali riguardo alle loro responsabilità in merito alla questione palestinese e alla storia dei genocidi moderni. In questo connubio di poteri ciechi e sensi di colpa irrisolti, la gerarchizzazione razziale del mondo, che ha sostenuto per secoli l’antisemitismo in Europa e l’identificazione della presunta inferiorità di altre vite, storie e culture in spazi coloniali, non viene mai affrontata. Sarebbe da creare una prossimità scomoda tra l’antisemitismo, l’islamofobia e il razzismo nei confronti dei corpi non bianchi, che includono quelli palestinesi. Alcune vite contano più delle altre. Questo è razzismo ed è svelato ogni giorno nel linguaggio dei politici, dei conduttori tv e di tutti gli apparati alle loro spalle. Ci si trova a confrontarsi con la difesa di un’egemonia che crede ancora nella supremazia razziale. Il genocidio in atto a Ga2a e il rifiuto politico di condannarlo e fermarlo ci ricordano questo passato, brutalmente presente e violentemente attuale, che irrompe tra di noi. La difesa oltranza dello Stato di Israele ci sta portando, attraverso la censura e la repressione di altre narrazioni e voci, allo scioglimento della nostra detta democrazia. Affrontare l’apparato razzista che ha sostenuto e giustificato la colonialità della modernità occidentale ci permetterebbe di vedere nell’antisemitismo e nel genocidio non tanto un’unica aberrazione del nostro ‘progresso’, quanto una parte strutturale della grammatica della nostra ‘civiltà’. Solamente quando venivano praticati su una parte razzialmente identificata della popolazione bianca sul suolo europeo, diventavano uno scandalo, come notava Aimé Césaire molti decenni fa. Qui siamo in bel mezzo del capitalismo razziale e della politica economica del mondo odierno. Nell’oscurità di questa storia profonda – dove il razzismo e il genocidio sono costituenti della modernità occidentale: chiedete ai nativi americani, agli aborigeni in Australia, ai milioni dei morti nel Congo che hanno spinto Conrad a scrivere Cuore di Tenebra – l’articolazione violenta dello stato nazione moderno e la macchina brutale del capitale che richiedevano e richiedono l’appropriazione unilaterale delle risorse del mondo per riprodursi espone la costanza razziale e coloniale della questione. L’accusa di antisemitismo rivolta a chiunque critichi la politica occidentale e le pratiche genocidarie di Israele ci consiglia ad affrontare il dispositivo del razzismo che giustifica la colonialità del potere e il suo esercizio sul pianeta. Questi sono i collegamenti che le autorità governative e istituzionali occidentali non vogliono né permettono di instaurarsi. È diventato il momento di accludere le persone e le organizzazioni delle comunità ebraiche che rifiutano di considerare l’antisemitismo come parte della sintassi del razzismo che determina gli assetti di potere del mondo odierno. Insistere sulla lettura dell’antisemitismo in questa chiave ci permette di distrarci dall’appoggio incondizionato allo stato coloniale d’apartheid che sta praticando la pulizia etnica nel Mediterraneo orientale, che è chiaramente dall’altra parte della linea di colore. Inoltre, in casa nostra, si intrecciano i tentativi attuali di svuotare la formazione educativa di ogni critica, con le proposte che la storia sia esclusivamente una proprietà occidentale e dove spesso, nei dipartimenti universitari, la presunta neutralità scientifica degli approcci disciplinari continua a rendere altre storie, culture e vite soltanto locali e di poco conto nella loro individualità antropologica rispetto alla grande narrazione del progresso liberale. Questo sarebbe il progresso, come insisteva il filosofo liberale John Locke, che richiede l’eliminazione degli indigeni – delle loro storie, culture e vite per potersi realizzare. Imponendo il proprio apparato di conoscenza (come se non fosse già ibrido e creolizzato nella sua formazione), si presenta hegelianamente come universale e come guardiano della dialettica della storia. Così si negano agli altri e alle altre il diritto di essere soggetti storici, di narrare, spiegare, proporre e vivere una modernità che non è soltanto nostra. Ancora una volta, e andando ben oltre i limiti del noto concetto di orientalismo di Edward Said, si tratta di un dispositivo che, proprio nel proporre e riprodurre saperi ‘neutrali’ e scientifici, sopra i giudizi altrui, espone un dispositivo coloniale e razzista.

Il grande archivio di Israele

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