Ein EI Hilwe si scopre una piccola Gaza
Ein El Hilwe, campo profughi palestinese in Libano da sempre cuore della resistenza armata, si scopre una piccola Gaza: un raid israeliano ha colpito un campo da calcio, facendo strage di ragazzini. E ora Anp e Beirut puntano al disarmo, messaggio chiaro per Usa e Israele. «Hai l’autorizzazione? E l’accredito stampa del ministero e il passaporto? Ok, resta qui e aspetta mentre controlliamo i tuoi documenti», ci dice uno dei soldati libanesi di guardia al posto di blocco militare che vigila su ogni movimento in entrata e in uscita da Ein El Hilwe. All’inizio ci dice che non siamo autorizzati a entrare, poi l’approvazione esce fuori e ci fanno passare. Non è mai stato facile entrare, ma le restrizioni si sono fatte ancora più rigide. Un tempo bastava qualche ora per ottenere il permesso. Ma questo campo profughi, nel cuore di Sidone, roccaforte storica della militanza palestinese – in passato controllato dal partito Fatah e dall’Olp e oggi senza una guida unica e con una presenza consistente di Hamas – è tornato di nuovo al centro delle notizie. Fecero scalpore nell’estate 2023 gli scontri a fuoco al suo interno, con morti e feriti, tra le principali fazioni palestinesi. LO SCORSO 18 NOVEMBRE Ein El Hilwe si è scoperto una piccola Ga2a dopo l’attacco aereo improvviso, il più letale compiuto da Israele sul territorio libanese dalla tregua siglata nel novembre 2024 con Hezbollah. Un missile sganciato tra le case del campo, udita in tutta Sidone, ha ucciso 13 palestinesi, in gran parte adolescenti che giocavano a pallone in un piccolo campo da calcio nei pressi della moschea Khalid bin al Walid. Per il portavoce militare israeliano sarebbe stato preso di mira un raduno di dirigenti locali del movimento islamico palestinese. Una versione che le foto delle vittime non convalidano. Ci accompagna in giro Mahmoud Abu Hamda, responsabile locale dell’associazione di assistenza ai rifugiati «Beit Atfal al Sumud». «Non siamo rimasti sorpresi dall’attacco israeliano, la vita dei palestinesi ovunque essi siano: colpiti e uccisi in continuazione, in ogni modo (da Israele), a Gaza, in Libano, in Cisgiordania, in ogni luogo», dice Mahmoud mentre ci porta sul luogo della strage dei ragazzi. Le loro foto sono dappertutto nelle strade e nei vicoli stretti del campo che percorriamo. I cavi della corrente elettrica sono come ragnatele che gravano sulla testa degli abitanti. Tutti i campi per rifugiati in Libano sono così: con servizi minimi, molto affollati, in totale degrado, prigioni a cielo aperto in cui le autorità libanesi tengono i palestinesi, che erano e restano ospiti indesiderati, senza possibilità di lavorare all’esterno (con rare eccezioni) e nessun diritto. Passiamo davanti alla moschea Khalid bin Al Walid. C’è un piccolo presidio armato. Le bandiere verdi di Hamas sventolano sugli edifici intorno. «Ecco, questo è il centro sportivo colpito da Israele», ci dice Mahmoud indicando un ampio cortile tra alcune palazzine. Il campo da calcio è già stato ripulito, la copertura danneggiata dall’esplosione è stata portata via e degli operai sono intenti a riparare la rete elettrica. A distanza di quasi due settimane, i segni più visibili del raid mortale sono le carcasse annerite di alcune auto. Facciamo foto e video sotto lo sguardo carico di sospetto di alcuni abitanti. Mahmoud ci fa capire che dobbiamo andare. A poche decine di metri, in una piccola abitazione, ci attende Aja Majda, 35 anni, conosciuta come Um Obaida. È la madre di uno dei ragazzi uccisi, Obaida Hutani, 17 anni. Porta il lutto, il volto è segnato dal dolore per la perdita del figlio, ucciso assieme a due cugini adolescenti come lui. «Il 18 novembre Obaida era andato a scuola come sempre, all’istituto dell’Unrwa (l’agenzia dell’Onu che assiste i profughi palestinesi, boicottata da Israele, ndr) ed era tornato a casa tranquillo», ci racconta tenendo in mano il telefono: sullo schermo c’è la foto del ragazzo. «Amava molto il calcio – aggiunge la donna sotto lo sguardo della madre, della figlia e del figlio più piccolo -, da quando hanno aperto il campetto vicino casa, non mancava occasione per andare a giocare con i suoi amici. E così è andata quel pomeriggio». OBAIDA NON SAPEVA che la partitella quotidiana si sarebbe trasformata in una trappola letale. «C’è stata una forte esplosione, ha fatto tremare la nostra e le altre abitazioni intorno – prosegue Um Obaida – Ho sentito urla, le sirene delle ambulanze, ero confusa. Sono arrivate delle persone a dirmi di essere forte e che Obaida era diventato un martire. Parole che mi hanno dato dolore e conforto allo stesso tempo. Ho amato mio figlio per come è stato quando era vivo e lo amo ora come martire, lui è vicino a Dio». Um Obaida, come Mahmoud, ci ripete che i palestinesi «sanno di essere nel mirino di Israele». Fonti palestinesi hanno negato la presenza di infrastrutture militari nella zona colpita, sostenendo che la versione israeliana altro non è che il tentativo di giustificare un bombardamento che ha ucciso tanti ragazzi. L’ufficio dell’Alto Commissariato dell’Onu per i diritti umani ha sollecitato un’indagine rapida e indipendente, ricordando che il bombardamento di un campo profughi popolato da civili può configurare un crimine di guerra. Da parte di Beirut le prese di posizioni sono state blande, poco incisive. La denuncia ha privilegiato l’aspetto dell’ennesima grave violazione della sovranità libanese. IL PREMIER Nawaf Salam e il capo dello Stato Joseph Aoun, come una buona fetta di libanesi, non hanno simpatia per il Ein El Hilwe, visto da decenni come fonte di problemi e non un luogo dove circa 60mila palestinesi (e non solo), forse 80mila, vivono in condizioni spaventose. Il disarmo delle milizie palestinesi – che sulla base di un accordo del 1969 hanno avuto sino ad oggi l’incarico di proteggere i profughi – a Ein el Hilwe e in altri campi, è l’obiettivo che Beirut si è data per dimostrare agli Stati uniti (e a Israele) di poter raggiungere anche l’obiettivo del disarmo di Hezbollah. Possibilità a dir poco remota. Anzi, il leader del movimento sciita Naim Qassem, due giorni fa, ha ribadito che le armi della Resistenza non si toccano e che Hezbollah ha il diritto di rispondere al momento più opportuno all’assassinio del suo comandante militare Haytham Tabatabai compiuto nei giorni scorsi da Israele. Nell’estate 2025 l’esercito libanese ha avviato – con il consenso dato il 21 maggio dal presidente di Fatah e dell’Olp, Abu Mazen – l’operazione per «riconquistare» il monopolio sulle armi presenti nei 12 campi profughi palestinesi del Libano. Delle armi – mitra, granate, lanciarazzi e pistole – sono state consegnate dai combattenti nei campi a Beirut. Altre consegne hanno riguardato le regioni meridionali come Rashidieh, Al-Bass e Burj al-Shamali. Infine armi sono state raccolte nei campi di Beddawi (nord di Tripoli) e Ein El Hilweh. Però diversi gruppi palestinesi, a cominciare da Hamas e Jihad hanno respinto la decisione di Abu Mazen. «FINO A OGGI sono state date solo armi vecchie, neppure quelli di Fatah vogliono consegnarle ci spiega un abitante di Ein El Hilwe vicino ai gruppi armati Le armi rappresentano non solo un mezzo di autodifesa, ma anche un legame identitario con la causa palestinese e con il diritto al ritorno per i profughi nella loro terra». La protezione autonoma dei campi, aggiunge «è un nostro diritto, a maggior ragione ora che siamo sotto attacco continuo di Israele».