Intervista a Alon Pinkas: “Bibi sa che in aula può perdere, ora è in cerca di una scappatoia”

Alon Pinkas non si nasconde: del premier Netanyahu non è mai stato un fan, anzi. Ex diplomatico, consigliere del presidente Shimon Peres e del premier Ehud Barak, commentatore di Haaretz – il giornale dell’intelligentsia di Tel Aviv – esperto di politica internazionale ma attento osservatore della realtà di casa, è la persona giusta per spiegare al mondo esterno una decisione che è invece tutta interna, come quella del primo ministro di chiedere la grazia proprio ora. Qual è il significato di questa mossa fatta in questo momento? «È una domanda troppo difficile: davvero non è possibile dirlo…». Le ragioni che lo hanno spinto però non sono difficili da indovinare… «No, non lo sono. Netanyahu sa che dall’aula di tribunale può uscire sconfitto. E sa anche che, se pure riuscisse a prolungare ancora il processo per mesi, e quindi a non arrivare a una sentenza prima delle elezioni, non potrebbe presentarsi alle urne con queste accuse di corruzione ancora in piedi. E dunque prova a chiuderle». A Quindi il senso della mossa è chiudere in tempi rapidi… «In realtà le interpretazioni possibili sono due: la prima è quella di chi dice che c’è già un accordo fra il premier e il presidente Herzog, che il perdono è cosa fatta e quindi Netanyahu doveva solo fare la richiesta formale. Se fosse vero, ci attenderebbero un paio di settimane di teatrino politico, di indignazione, poi la grazia verrebbe concessa e la partita sarebbe chiusa. Ma questo scenario non è semplice come si può pensare: un provvedimento di grazia deve passare attraverso il ministero della Giustizia, l’ufficio del Procuratore generale e infine Herzog. Poi ci sarebbe sempre la possibilità di fare appello alla Corte suprema. Se pure fosse possibile arrivare a chiusura, non parliamo di tempi rapidi». E il secondo scenario? «Il secondo scenario è che questo è l’inizio di un negoziato, non la sua fine. Nella sua dichiarazione Netanyahu non ha ammesso alcuna responsabilità, né tantomeno ha chiesto scusa: ha detto che la grazia serve a unire il Paese. E lo ha detto ben sapendo che metà del Paese non è d’accordo: proprio perché lo sa, vuole intavolare un negoziato». Per arrivare dove? «È importante ricordare che già nel 2017, all’inizio del procedimento giudiziario contro di lui, gli fu offerto di patteggiare. Ma accettare il patteggiamento avrebbe richiesto assumersi una responsabilità per l’accaduto e lasciare la politica. Chiunque conosca Netanyahu sa che non accetterebbe mai una cosa così: e infatti, non ha accettato. Dunque ora cerca, con la trattativa, una via di uscita diversa da quella che gli era stata proposta». Ci può essere una via d’uscita senza ammissioni? «Herzog – per dirlo in maniera elegante – non ha mai tenuto una posizione molto forte su questa vicenda. Ma anche se decide di non fare un’opposizione di principio, e anche se è sotto una enorme pressione, non vedo come possa arrivare a una forma di perdono che non preveda ammissioni di colpa». Neanche su richiesta di Trump? Il presidente americano nel discorso alla Knesset di ottobre ha chiesto pubblicamente la grazia… «Questo fa parte della enrome pressione a cui è sottoposto Herzog. Io sono convinto che Trump non abbia chiesto il perdono di sua spontanea volontà, ma che lo abbia fatto per rispondere a una richiesta venuta dalla cerchia di Netanyahu. Gli avranno detto: “In cambio della sua intercessione, il primo ministro si impegna a mantenere la pace a Ga2a e di conseguenza a lei daranno il Nobel per la Pace”. Ma non è così facile: il sistema israeliano prevede una serie di garanzie, di controlli, che negli Stati Uniti non ci sono. Sulla grazia non decide solo il presidente». Che conseguenze avrà tutto questo sulle elezioni, al momento previste per fine 2026? «È presto per dirlo: questa vicenda può chiudersi in tre settimane o andare avanti per mesi. Dipenderà da come e quando finirà. Ma di certo c’è una cosa: i sondaggi dicono che anche se il Likud di Netanyahu resta solido, non avrà i voti per creare una maggioranza di governo. E lui lo sa bene».

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