Intervista a Andrea Casalegno: “Offeso da quell’attacco squadrista. Mio padre ucciso per le sue idee”

Andrea Casalegno, cos’ha provato alla notizia dell’assalto alla redazione de La Stampa? E ad ascoltare lo slogan “giornalista terrorista sei il primo della lista”? Suo padre fu effettivamente il “primo” giornalista ucciso dai terroristi, esattamente il 29 novembre 1977. «Questa aggressione squadrista mi offende come cittadino, prima che come giornalista e come figlio di Carlo Casalegno. È un’azione che va catalogata insieme a quelle di chi bruciava i libri e di chi somministrava l’olio di ricino. Maa nche insieme a quella dei coloni israeliani che due giorni fa hanno aggredito dei giovani volontari che assistevano i palestinesi in Cisgiordania. Sono azioni intimidatorie». Ma secondo lei, gli autori capiscono la portata effettiva degli slogan che pronunciano? «Ognuno di noi è responsabile di ciò che dice e di ciò che fa. Gli attivisti di un centro sociale sono dei giovani impegnati e quindi mediamente più informati della media. Un’espressione come “giornalista primo della lista” è di una gravità enorme, implica una conoscenza degli slogan degli anni Settanta e quindi esclude che non sapessero cosa dicevano. Certo bisogna fare la tara alle iperboli, come nei cori da stadio, quando dalla curva qualcuno grida “ammazzalo” non va preso in senso letterale. Ma l’indulgenza è sempre complicità». E cosa pensa di quelli che, come Francesca Albanese, hanno definito l’azione a La Stampa come un “monito” per tutti in giornalisti? «Questa affermazione significa approvare l’aggressione, in modo ipocrita, come lanciare il sasso e nascondere la mano. Sa, come quelli che dicono: io sono contro la violenza, ma in fondo in fondo si può capire… È una posizione che mi suscita indignazione e disgusto». Come giudica l’informazione del giornale sulla crisi di Gaza? «Se entriamo nel merito della questione, a me pare che La Stampa si sia comportata benissimo sulla Palestina e quindi non esiste nemmeno alcuna ragione intrinseca per dare ragione a chi dice “un monito”. Che sarebbe comunque, a sua volta, un argomento secondario perché rischierebbe di dare ragione a chi avesse giustificato questa azione nel caso il giornale si fosse comportato male». E qual è il suo giudizio sulla mobilitazione dei giovani? «Di fronte alla stupidità, l’argomento gioventù è patetico e irrilevante. Chi fa una gesto simile non ha nessuna intenzione di confrontarsi. È un gesto squadrista e non uso la parola fascista perché non voglio buttarla in politica. Qui c’è una questione di civiltà, di convivenza. Si attacca un principio fondamentale, lo si attacca consapevolmente, lanciando slogan di cui si conosce perfettamente il significato». Qual è stata la sua reazione umana e intima? «È un aspetto secondario, ma certo essere il figlio di una persona assassinatami rende particolarmente sensibile all’orrore e alla criminalità del gesto. Mio padre è stato ucciso per le sue idee, perché secondola terminologia delle Brigate rosse era “un agente della controguerriglia psicologica”, e dunque nella logica del colpirne uno per educarne cento. Come giornalista capisco l’intenzione di intimidire i giornalisti. Tuttavia, siccome la stragrande maggioranza ha la schiena diritta, non servirà a niente». Lei è stato un militante nei movimenti degli anni Settanta. Vede della analogie con le manifestazioni di oggi? «Allora i sindacati avevano un forte servizio d’ordine che impediva che dai cortei si staccassero gruppetti incontrollabili. Anche i gruppi extra parlamentari. Non ricordo che durante le manifestazioni per il Vietnam a cui partecipavo si sia attaccata la sede di nessun giornale,né aTorino, né altrove. In Palestina l’orrore ha superato ogni limite, ci sono migliaia di bambini uccisi e il fatto che sia responsabile l’esercito di uno Stato è inaccettabile, sono fatti intollerabili, condannati anche da fior di pubblicisti ebrei. Ma il fine non giustifica i mezzi, non c’è causa pur sacrosanta che giustifichi l’uso di mezzi sbagliati». Il movimento è stato molto sostenuto, nonostante manifestazioni violente e slogan inaccettabili che si è fatto finta di non vedere e non sentire. Non è successo anche negli anni Settanta? «C’è la zona grigia, quella descritta da Primo Levi, gli indulgenti. È un modo di voltarsi dall’altra parte: se sono dalla mia parte sono compagni che sbagliano, se sono dall’altra parte sono dei criminali assoluti. Se poi difendi il popolo palestinese orribilmente aggredito, purtroppo, spunta sempre qualcuno che inneggia ad Hamas. Sarebbe necessario che il corteo li cacciasse a pedate, purtroppo non avviene. Ai miei tempi nei cortei c’era chi gridava “camerata basco nero il tuo posto è il cimitero”, io di sicuro non l’ho mai gridato, ma confesso di non aver mai impedito che lo gridassero. Nella folla chi esagera gode dell’impunità». Perché hanno attaccato proprio La Stampa? «Non penso per quel che ha scritto, ma in quanto simbolo di una grande industria a sua volta simbolo di un presunto sistema detestato di potere. Ma anche questo è secondario, secondo me l’aggressione non è stata tanto indirizzata al luogo, ma simbolicamente al giornalista, e questo rende molto più grave il gesto intimidatorio nei confronti della libera manifestazione del pensiero. Chiunque sia il cosiddetto “padrone”, è poi il singolo giornalista che scrive, firma ed è responsabile. Non è certamente il padrone che detta la linea sulla Palestina». Fare il giornalista è un mestiere o è una missione? «È una professione. In certi casi, come in quello di mio padre, quando sai di rischiare la vita, per svolgere il tuo lavoro normalissimo, diventa una missione. Carlo Casalegno era la persona più sobria del mondo, più incline all’autoironia che all’auto incensamento, faceva la sua professione, come dovrebbero fare tutti, giudici, medici, chiunque, anche i politici».

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