L’appropriazione della pace: il cortocircuito della sinistra
di Paolo Crucianelli - 13 Ottobre 2025 alle 19:39
Negli ultimi giorni stiamo assistendo a un fenomeno che merita più attenzione: la sinistra italiana e buona parte dei media mainstream – ormai quasi indistinguibili in certi temi – cercano di attribuirsi il merito della pace a Gaza che, in realtà, è stata resa possibile in massima parte da azioni diplomatiche statunitensi guidate da Donald Trump, dagli attori arabi del Golfo e da pochi Paesi europei, silenti mediaticamente ma attivi diplomaticamente, come l’Italia e la Germania. È una mossa che rasenta l’assurdo, oltre che una distorsione del racconto politico.
Il primo sintomo di questa malattia è confondere la piazza (anche se grande) con la maggioranza del Paese. Quando una mobilitazione raggiunge grandi numeri di partecipanti, come indubbiamente è avvenuto nelle ultime settimane, non significa che quell’istanza identifichi necessariamente il sentire di una maggioranza, senz’altro meno rumorosa. Il punto è che oggi il confine tra piazza e opinione pubblica è stato amalgamato da una narrazione mediatica che ha agito da invertitore concettuale e da moltiplicatore autoreferenziale: non è la piazza che ha fatto la narrazione, ma la narrazione che ha generato e legittimato la piazza.
In questo contesto, non stupisce che gli ambienti tradizionalmente legati ai media progressisti — la sinistra, le Ong, certi intellettuali, i movimenti antagonisti — proiettino oggi sul “movimento a favore della Palestina” lo stesso senso di legittimità morale che si sono storicamente attribuiti. È così che almeno una buona parte della sinistra afferma, con apparente naturalezza, che “la piazza rappresenta il Paese”, come se fosse una verità scontata e indiscutibile. E lo fa con veemenza, pretendendo che il governo si uniformi a quella che loro considerano “volontà popolare”.
La vittoria di Giorgia Meloni non è stata un semplice cambio di maggioranza: è stata una cesura culturale. La sinistra italiana, abituata per decenni al sistema dell’alternanza con un centrodestra moderato (come ai tempi di Berlusconi), non era preparata ad affrontare una destra con un’identità forte e coerente. È come se, d’improvviso, il dispositivo che regolava il gioco politico fosse improvvisamente saltato. Da allora, la politica di sinistra (e buona parte dei media a essa legati) non ha fatto che reagire, spesso in modalità puramente oppositiva: “contro il governo”, “contro la linea della Meloni”, contro qualunque proposta di cambiamento il governo intendesse realizzare.
L’alleanza politica, culturale e industriale con Israele si inserisce perfettamente in questa logica di contrapposizione. La questione palestinese diventa un terreno privilegiato di opposizione morale: se il governo è percepito come filoisraeliano, la sinistra deve, necessariamente, essere “filopalestinese”. Per definizione. È una strategia priva di coerenza politica che sfuma in un riflesso condizionato. Quando la stampa mainstream si allinea narrativamente con la piazza, il risultato è che la battaglia politica non è più condotta nei fatti o nei programmi o nel confronto, ma nel dominio simbolico: chi detiene il linguaggio morale, vince la percezione pubblica. Ecco allora che la sinistra, che ha perso pezzi di identità e autorità politica, cerca di recuperare terreno appropriandosi del simbolo più potente e coniugabile: la pace. Da contrapporre al governo, che viene così identificato come guerrafondaio. La vita contro la morte.
È ormai chiaro che la pace negoziata tra Israele e Hamas non è nata dalla piazza italiana o europea, e tantomeno da folcloristici navigli, ma da pressioni diplomatiche internazionali — con gli Stati Uniti in posizione assolutamente centrale. Trump ha insistito, i mediatori arabi hanno partecipato attivamente, e le trattative sono proseguite dietro le quinte, nel silenzio che contraddistingue le azioni diplomatiche serie.
Che piaccia o no, The Donald è stato il regista: certo, un film non si fa senza attori, ma è evidente che la mediazione americana e il “peso” di Washington sono stati determinanti per far accettare a Israele e ad Hamas una tregua e lo scambio ostaggi-prigionieri. Quindi, se oggi la sinistra tenta di rivendicare che “la piazza ha fatto la pace”, o che “la Flotilla è stata determinante”, sta commettendo un triplice errore. Prima di tutto queste iniziative, semmai, il processo di pace lo hanno ritardato, essendo ormai evidente che Hamas, in questi due anni di guerra, si è abbeverato alla fonte della narrazione contro Israele; ne ha tratto linfa vitale sotto forma di consenso e di diluizione morale dello scempio del 7 ottobre. In secondo luogo, è falso dire che le iniziative di piazza o di mare, che sono puramente simboliche, abbiano influenzato la dimensione diplomatica che, concretamente, opera secondo degli obiettivi geopolitici ad “ampio spettro” che hanno, oltre agli scopi umanitari, molto a che fare con il futuro energetico e industriale dei Paesi coinvolti. Infine, ha risvegliato l’antisemitismo, e non solo gli ha dato rinnovato vigore, ma lo ha reso accettabile (da loro) mentre prima, almeno, sopiva nascosto da un velo di vergogna.
Questo tentativo, di certa sinistra, di attestarsi la supremazia morale e di relegare chi non si uniforma ai margini, non solo del dibattito, ma della società, è al tempo stesso esecrabile e profondamente divisivo. Il dibattito pubblico, peraltro, è stato cancellato dal vocabolario; la narrazione non lo prevede. Esistono solo asserzioni dal valore granitico e indiscutibile: “Netanyahu è un criminale”, “Israele è uno Stato genocidiario”, “L’Idf spara ai civili in fila per il cibo”, “Il blocco navale è illegale”, “L’abbordaggio della Flotilla in acque internazionali è illegittimo”. Peccato che nulla di tutto questo sia vero, ma se si osa metterlo in discussione, si diventa inesorabilmente “complici del genocidio”.
In parole povere, quello che sostengono è che loro sono il bene, gli altri il male. La politica di sinistra non dovrebbe avere paura di riconoscere che la pace (o la tregua) è un complesso artefatto di diplomazia internazionale, non un prodotto automatico della piazza. Riconoscere i limiti, le mediazioni, le contraddizioni, la complessità del mondo non è segno di debolezza: è serietà. Se i progressisti vogliono tornare a essere credibili, non possono più basare la loro identità esclusivamente sull’opposizione permanente. E soprattutto non devono avere un atteggiamento offensivo, divisivo e sprezzante verso chi non si uniforma. Devono tornare a costruire, a proporre, a mediare, soprattutto a dialogare con retoriche diverse. Devono accettare il confronto e devono dismettere i panni di controllori morali del mondo.