Il gesto semplice di posare il telefono: la lezione dello Shabbat che salva l’adolescenza

di Dalia Gubbay - 3 Dicembre 2025 alle 15:19

La storia di un gesto semplice.

Mio figlio, 15 anni, adolescente nel pieno del suo fulgore, fatto di inquietudini, trasformazioni, misteri e domande, stasera si avvicina sconsolato e mi dice:
“Ti ricordi Ma, quando ieri ti avevo detto che il mio tempo di utilizzo del cellulare era aumentato e non ero per niente contento? Ecco… oggi ho preso quattro in scienze”.
Il primo voto in rosso dell’anno.
Mi chiede di tenerglielo.
L’aggeggio tanto amato e odiato, che ci incatena, ci ammalia, ci isola promettendoci il contrario.
Me lo butta lì vicino, sul divano.
Non lo vuole né vedere né toccare.
Sente la sua mente volare via senza riuscire a controllarla.
Sono fiera di lui.
Non è scontata questa presa di coscienza, non in un maschio pieno di ormoni e di incertezze.
Non so se sia, almeno in parte, colpa o merito mio.
Ho rischiato di perderlo alla nascita, e ho rischiato anche io — lo capii solo in seguito.
Qualcuno lassù forse voleva dirmi che sei creature potevano anche bastare.
Per questo senza che se ne accorgesse l’ho sempre guardato con occhi più attenti, più timorosi.
Ora proprio lui mi sta dando una lezione di vita, perché anche io, e tutti noi, ci stiamo perdendo.
Sono preoccupata.
Non tanto per lui, che nel mostrare questa consapevolezza ha già fatto un passo gigantesco.
Ma per tutti i ragazzi di cui non si fa che parlare, e probabilmente la mia voce non sarà così diversa dalle altre.
Eppure, sento di doverlo fare.
Forse con un’altra prospettiva.
Siamo stati una delle prime scuole a vietare i cellulari nelle aule, iniziando dalla scuola media.
Ricordo la ricerca su Amazon, quegli strani armadietti con le chiavette; con la dirigenza eravamo un po’ in ansia , a casa i ragazzi mi osservavano con un po’ di pietà, come si guarda Don Chisciotte.
Ma filò tutto liscio.

Il 9 ottobre 2023 venne in visita il Ministro Valditara, due giorni dopo la tragedia del 7 ottobre.
Erano le 11, l’intervallo. Gli chiesi di osservare i ragazzi che sciamavano nei corridoi: gli dissi che stavano facendo qualcosa di grande.
Si stavano parlando.

Per i licei l’iter fu più complesso: sembrava preoccupare più i genitori che i ragazzi.
Ma superammo anche questo scoglio, senza troppe tragedie.
E poi diventò legge.

Dunque, per qualche ora al giorno, i ragazzi possono sperimentare una nuova dimensione.
Fino al termine delle lezioni, quando — come assetati nel deserto — si precipitano, giustamente, a riappropriarsi dell’oggetto del desiderio.

Ed è qui che il mio pensiero va allo Shabbat.
A quel tempo sospeso, così difficile da spiegare a chi non l’ha mai vissuto: venticinque ore in cui il mondo frena, in cui quello strano prolungamento della mano finalmente tace.

Venticinque ore in cui non siamo schiavi di nulla, se non del dovere — dolcissimo e severo — di stare insieme, di guardarci davvero, di lasciare che le parole o il silenzio ci insegnino ciò che le notifiche non sanno dire.

A scuola lo insegniamo già dal Nido: “Il settimo giorno D-o si riposò”.
La nostra palestra settimanale di disconnessione è un’abitudine antica, oggi più rivoluzionaria che mai.
Lo Shabbat — e, in realtà, un ragguardevole numero di festività durante l’anno — ci ricordano che la mente si raddrizza solo quando la si lascia respirare, e che le relazioni si salvano non aggiungendo tempo, ma togliendo rumore.
Trovando momenti.

Il venerdì sera, nel mio salotto, si gioca a scacchi, a backgammon, a Risiko. Ci si racconta, ci si ascolta.
Non tutti lo osservano alla stessa maniera, ma è certamente un momento a cui, come madre di famiglia, do enorme valore.
Verso mercoledì chiamano tutti a turno, i miei figli. Sabato c’è il pranzo dalla nonna?
Abitudini che scandiscono le nostre vite e che sono come potenti fari ad indicarci la via.
Lo Shabbat inizia così, prima del tramonto: quando capiamo che non possiamo essere ovunque e in ogni istante, quando scegliamo la presenza invece della velocità, la consapevolezza invece dell’automatismo.

Mentre scrivo, tento io stessa di non guardare il cellulare, né le mail, né Telegram per le notizie da Israele, né la TV.
Non è facile.

E ancora, mentre scrivo e senza volerlo, mentre penso alla pace dello Shabbat, la mia mente corre e non riesco a fermarla, a quella ricorrenza maledetta, a quante volte gli ebrei e Israele sono stati attaccati, e non a caso, in quel giorno.
Proprio perché il nostro tempo sacro è tempo di pausa, di luce e di preghiera, ci hanno fatto ancora più male.

Il 16 ottobre 1943, la razzia del ghetto di Roma.
Il 6 ottobre 1973, la guerra del Kippur.
Il 9 ottobre 1982, l’attentato alla Sinagoga di Roma.
Il 7 ottobre 2023, il pogrom.

Date che pesano come pietre.
Era sempre sabato.
Sempre Shabbat.
Spesso anche festa solenne.

Ai miei amici dico spesso che noi festeggiamo Natale ogni settimana, e loro ridono: un po’ ci ammirano, un po’ ci credono matti.
Io dico che è sano per i nostri figli.
Molti mi chiedono di partecipare, almeno una volta.
Quando capita ne restano affascinati.

E pensando a loro sono sempre più convinta che l’emergenza giovanile non chiede identità, ma responsabilità.

Chiede adulti capaci di dare un perimetro, una direzione, un limite che non è punizione ma dono.
Chiede scuole che abbiano il coraggio di andare controcorrente.
Chiede famiglie che non temano l’impopolarità di una scelta giusta.

Mio figlio stasera mi ha insegnato che la battaglia non è persa.
Che c’è ancora una soglia in cui i ragazzi sanno ascoltarsi davvero, se qualcuno li accompagna senza paura e senza rinunce.
E forse è da lì, da quel gesto semplice di posare un telefono, che può ricominciare qualcosa di grande: un’educazione nuova, più lenta, più umana, più sincera.

Uno Shabbat quotidiano, fuori dal calendario.

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