Assaltare un giornale è squadrismo. Bisogna rompere l ciclo della violenza.
L’ attacco contro la redazione de La Stampa a Torino non è solo un atto vile: è una ferita alla democrazia e un colpo gravissimo alla stessa causa palestinese. Per questo esprimo vicinanza e solidarietà ai giornalisti e al direttore Andrea Malaguti. Colpire un giornale – con volti coperti, fumogeni, minacce, devastazioni – ripropone forme di squadrismo che la storia dell’Italia ha già sconfitto e ricacciato indietro. E nessuna lotta davvero “giusta” può consentire di farsi inquinare da una violenza fine a se stessa. La solidarietà alla redazione e al direttore Andrea Malaguti è piena e doverosa. Tanto più perché La Stampa è uno dei pochi quotidiani italiani che, con continuità, ha dato spazio a voci palestinesi, documentando il “genocidio a bassa intensità” a Ga2a, il terrorismo dei coloni israeliani, le torture in carcere dei prigionieri palestinesi. È lo stesso giornale il cui direttore ha avuto il coraggio e la dignità di dissociarsi da un’altra “mattanza della verità” consumata nel convegno dell’Unione delle comunità ebraiche italiane al Cnel, di appena qualche settimana fa a Roma. Per questo l’assalto è doppiamente assurdo: colpisce proprio chi ha scelto di raccontare ciò che altrove viene ancora oggi vergognosamente nascosto. La violenza è una spirale discendente, spesso usata per giustificare e fomentare ulteriore violenza. La storia della Palestina ne è la più evidente dimostrazione. Israele giustifica lo sterminio e la pulizia etnica come l’unica risposta alla violenza di Hamas, i cui dirigenti a loro volta usano la violenza sistemica dell’occupazione israeliana per infliggerne le conseguenze contro milioni di palestinesi. L’unica strada per rompere il ciclo della violenza è una resistenza civile moralmente e politicamente simile alla lotta guidata da Martin Luther king, e Nelson Mandela… Da Marwan Barghouti che anche dalla sua cella nella prigione israeliana, invoca una soluzione politica pacifica. Troppi segnali mostrano come il modello israeliano stia contaminando altri contesti. In Italia si ricorre alla detenzione amministrativa per privare della libertà un imam stimato da tutti, senza accuse né reati. Intanto, parole d’odio contro i giornalisti li trasformano in bersagli: impossibile non pensare a come l’Idf abbia etichettato come “terroristi” i cronisti palestinesi prima di ucciderli. Negli Stati Uniti, l’aviazione colpisce civili nei Caraibi con operazioni extragiudiziali: il ministro della Guerra Pete Hegseth si vanta pubblicamente di azioni che configurano crimini di guerra. È ora sotto inchiesta per aver ordinato un secondo attacco contro i sopravvissuti in acque internazionali. La stessa logica si vede in Cisgiordania e a Ga2a, dove l’esercito israeliano ha giustiziato davanti alle telecamere quattro presunti “terroristi”. Erano in realtà due bambini palestinesi di undici e otto anni, usciti a raccogliere legna per riscaldare il padre paralizzato. Questo è il boomerang del genocidio in Palestina: l’erosione globale di ogni limite, morale e giuridico. È dunque possibile – ed è necessario – lottare per la Palestina, denunciare le atrocità, indicare le responsabilità. Ma se questa lotta riproduce metodi che appartengono all’oppressore – la violenza, l’intimidazione, e il bavaglio, – allora non è attivismo: è una resa morale, un tradimento! Attaccare la redazione di un giornale, devastare uno spazio d’informazione, gridare minacce: non è “resistenza”, è squadrismo! E ogni azione di quel tipo ovunque avvenga – mina la fragile speranza di una convivenza possibile, di un processo di liberazione che passi attraverso la coscienza e la responsabilità civile collettiva. La normalizzazione del genocidio palestinese, dell’occupazione e dell’apartheid può produrre altrimenti conseguenze devastanti. Urge agire secondo i valori e i principi che ci guidano, riappropriandoci di una più forte cultura della democrazia.