La grazia di Bibi
La richiesta del premier a Herzog è il punto di partenza della futura politica di Israele. Quando nel 2021 Isaac Herzog, già leader laburista, venne eletto dalla Knesset capo dello stato grazie anche ai voti del Likud, fu chiaro che tra il neopresidente e Benjamin Netanyahu si stava saldando un’alleanza insolita. E’ avendo questo patto a mente che va inquadrata la richiesta di grazia preventiva presentata domenica dal premier più longevo d’Israele, con l’obiettivo di condonare i tre processi (frode, abuso d’ufficio e corruzione) che lo vedono coinvolto da cinque anni e che da dieci, con l’avvio delle indagini nel 2015, spaccano la società israeliana in due fazioni: i “bibisti” e i “ralabisti” (acronimo per “tutto tranne Bibi”). Il terreno per la richiesta formale di Netanyahu è stato spianato nei mesi, con l’intervento di Trump e dei parlamentari del Likud. Il tempismo non è casuale: giovedì la coalizione ha depositato il controverso disegno di legge sull’arruolamento degli haredim. Dopo la guerra più lunga e traumatica della storia del paese, la richiesta di equità nel servizio militare è diventata una voce potente e trasversale nella società israeliana. La proposta è considerata troppo indulgente anche dall’elettorato di destra, tanto che alcuni esponenti della coalizione hanno già dichiarato che vi si opporranno se non subirà modifiche nell’iter. Non solo: attualmente il governo conta solo 60 voti su 120, e tra due settimane sarà possibile presentare nuovamente una mozione di sfiducia. Sullo fondo, il quadro è quello di un paese frammentato, dove il dibattito sull’equità dell’arruolamento, la commissione d’inchiesta sul fallimento del 7 ottobre (lì il nodo della diatriba è se nominata dai giudici o dai politici) e la grazia a Netanyahu sono i veri temi che spaccano le famiglie israeliane nella tavola dello Shabbat, intrecciati, ma non necessariamente sovrapponibili tra loro. E così lo stallo politico precedente al 7 ottobre, quello che portò a cinque tornate elettorali in tre anni, sussiste. Il recente voto in prima lettura sull’annessione di alcune aree della Cisgiordania, passato con i voti dell’opposizione, mostra quanto i confini ideologici tra le fazioni siano liquidi: ciò che tiene lontani Lapid, Gantz e di certo Lieberman e Bennett dal Likud non sono tanto le divergenze sulla sicurezza o sulla diplomazia, ma la figura stessa di Netanyahu: i bibisti credono che i processi siano sempre stati politici (una corrente non da poco è delusa dalla domanda di grazia, crede che Netanyahu dovrebbe andare avanti per dimostrare che si riveleranno fumo negli occhi); i ralabisti credono che siano il motore del tentativo di sovvertire l’equilibrio tra i poteri dello stato indebolendo il giudiziario per interessi personali del premier. C’è quindi non poco cinismo in quanto scrive Bibi nella lettera a Herzog, che la grazia “consentirà di sanare le fratture tra le varie parti del popolo”: senza concessioni ai ralabisti, la spaccatura rimarrà tale e quale, se non peggio. E questo non sfugge al vecchio alleato Herzog. “Il prisma con cui vagliare questa richiesta è quello dell’interesse nazionale e del futuro dello stato d’Israele, non la persona Netanyahu”, ha affermato Udit Corinaldi-Sirkis, ex consigliere legale del presidente Peres. Si parla di “grazia con la condizionale”, in cui la condizione ottimale per l’intero arco politico – come già chiesto da Bennett e Lapid – è che Herzog conceda la clemenza solo a patto del ritiro di Netanyahu dalla vita politica. Un gradino più in basso vi è l’ammissione della colpa da parte dell’imputato Netanyahu e il suo impegno ad arginare le derive oltranziste del suo attuale governo sui temi scottanti: arruolamento, commissione d’inchiesta, riforma giudiziaria. Un’altra strada potrebbe essere un patteggiamento con il ritiro dell’accusa più grave, quella per corruzione – cosa che già nel 2022 i giudici chiesero alla procura di valutare, in quanto il capo più labile del procedimento giudiziario, come sembra emergere dal corso delle udienze aperte al pubblico. Va aggiunto che, se tutte queste ipotesi potevano forse essere valide prima del 7 ottobre, oggi anche una fetta dell’elettorato di destra pensa che Netanyahu debba andare a casa, come gesto di assunzione di responsabilità del più grande fallimento israeliano. Come ha detto Raffi Ben Shitrit, padre di un soldato caduto, “non c’è grazia per il 7.10”. Per questo, la domanda di grazia in realtà è solo il punto di partenza di una trattativa in cui, nelle prossime settimane, Herzog cercherà di barcamenarsi, nel tentativo di essere ricordato egli stesso negli annali per aver trovato il compromesso storico, versione Israele.