Quando si straparla di Nakba, almeno non si dimentichi la tragedia degli ebrei che vivevano da sempre nei Paesi islamici
di Giuseppe Altamore - 16 Ottobre 2025 alle 12:41
L’ostilità nei confronti di Israele e degli ebrei ha raggiunto un livello di guardia. È in questo clima avvelenato che spesso viene evocata la Nakba (catastrofe) palestinese del 1948. Ma quasi nessuno ricorda la cacciata di centinaia di migliaia di ebrei dai Paesi islamici: una pagina nera rimossa, che riguarda comunità radicate da secoli a Baghdad, Il Cairo, Damasco, Tripoli, Tunisi, Sana’a. Tra il 1945 e i primi anni Settanta circa 850.000 ebrei furono costretti a lasciare i Paesi arabi e l’Iran. Non si trattò solo di un clima di odio sempre più diffuso, ma di pogrom, stragi, arresti di massa, confische e leggi discriminatorie.
La Libia fu uno degli epicentri della violenza. Nel 1945 i massacri durarono quattro giorni e tre notti, dal 4 al 7 novembre: centinaia di case, negozi e sinagoghe in fiamme, 133 ebrei uccisi. Un secondo pogrom scoppiò nel 1948, subito dopo la nascita dello Stato di Israele. Ma fu nel giugno 1967, all’indomani della Guerra dei Sei Giorni, che la comunità ebraica di Tripoli venne definitivamente annientata.
Yoram Ortona, allora quattordicenne e oggi architetto a Milano, ricorda: «Il 5 giugno, era un lunedì, dovevo andare a scuola. Improvvisamente ci mandarono via: in centro a Tripoli erano scoppiati tumulti. Bruciavano i negozi, le sinagoghe assaltate, diciassette persone uccise. Attraversai la città tra fiamme e fumo, con l’odore acre delle fiamme. Ci rifugiammo in casa dodici giorni, nascosti dietro le tapparelle chiuse. Poi, il 17 giugno, fummo scortati all’aeroporto: due valige, venti sterline. Lasciammo tutto». Un altro testimone, Guido Hassan, 88 anni, nato a Tripoli e milanese d’adozione, racconta: «Eravamo italiani, libici, ebrei, e da un momento all’altro ci trasformammo in nemici. In poche ore perdemmo casa, lavoro, amici. Portammo via solo la paura e la certezza di non poter più tornare».
Anche l’Iraq conobbe violenze brutali: già nel 1941 il pogrom di Baghdad – il Farhud – causò la morte di oltre 180 ebrei, con stupri e saccheggi che segnarono l’inizio della fine per una comunità millenaria. Dopo il 1948, nuove persecuzioni spinsero quasi tutti i 135.000 ebrei a fuggire. In Egitto, l’era di Nasser portò arresti, internamenti, confische. Dopo la crisi di Suez del 1956, una comunità di 80.000 persone venne letteralmente smantellata. Lo Yemen e la città di Aden furono teatro, nel 1948, di pogrom che costrinsero alla fuga decine di migliaia di ebrei. Israele organizzò l’operazione “Tappeto Magico” (1949-50), con cui circa 50.000 persone furono portate in salvo. La repressione colpì duramente anche in Siria e Libano, con arresti arbitrari, restrizioni di movimento ed espropri. In Tunisia e Marocco, comunità numerose e vitali finirono per svuotarsi sotto la pressione di ondate di violenza e di un antisemitismo sempre più pervasivo.
Il dato politico è evidente: mentre i Paesi arabi hanno mantenuto i profughi palestinesi nei campi, facendone uno strumento di propaganda, Israele ha assorbito e integrato gli ebrei espulsi, senza che nessuna organizzazione internazionale rivendicasse per loro il “diritto al ritorno” o un risarcimento. Oggi circa un israeliano su due è figlio o nipote di ebrei cacciati dal Medio Oriente e dal Nord Africa. Si racconta sempre che 750.000 palestinesi lasciarono le loro case nel 1948, soprattutto a seguito del conflitto arabo-israeliano; ma nello stesso periodo 850.000 ebrei furono costretti a fuggire dai Paesi islamici, abbandonando tutto. Una tragedia riconosciuta solo in parte da una risoluzione Onu del 2014, rimasta però lettera morta.
Ecco perché nei dibattiti e nei media, quando si parla solo di una Nakba, si dimentica la tragedia degli ebrei che vivevano da sempre nei Paesi islamici. Una rimozione che pesa ancora e che rivela il doppio standard dell’opinione pubblica, sempre più vittima di narrazioni parziali e fake news.