Primi colloqui diretti tra Israele e Libano ma Beirut frena su apertura

Prima l’apertura, poi la frenata dal fronte opposto. Il governo israeliano ha confermato, ieri, colloqui diretti con funzionari libanesi nell’ambito del «meccanismo di verifica»: il sistema di monitoraggio sull’accordo di cessate il fuoco siglato nel 2024 nel conflitto con i miliziani sciiti di Hezbollah, presidiato da funzionari militari di Israele, Libano, Usa e Francia e membri delle forze di pace Onu. Il faccia a faccia si è svolto nella sede delle Nazioni Unite di Naqoura e ha rappresentato il primo confronto diretto fra i due Paesi dopo decenni di rottura diplomatica, lasciando trasparire ipotesi di una apertura nei rapporti. Nel tardo pomeriggio è arrivata la frenata del primo ministro libanese Nawaf Salam: i legami con Tel Aviv sono «lontani» dall’essere normalizzati, ha dichiarato, scontrandosi con gli annunci del premier israeliano Benjamin Netanyahu sull’invio di un diplomatico per trattative su un «tentativo iniziale di creare le basi per relazioni e una cooperazione economica». I rapporti sul fronte economico, ha detto Salam, potrebbero ripristinarsi dopo un processo di normalizzazione vincolato da Beirut all’adesione del piano arabo di pace del 2002. «Ma non ci siamo per niente», ha chiarito Salam, aprendo comunque su altri fronti di dialogo. Uno è la disponibilità a lasciare che le truppe statunitensi e francesi «verifichino» le proprie preoccupazioni su depositi di armamenti di Hezbollah nel sud del Libano. Il secondo è l’assenso alla proposta egiziana di una de-escalation di tensioni fra Libano e Israele, anche se sempre sul versante militare e senza la normalizzazione accennata da Israele e ricompresa nell’agenda mediorientale spinta dal presidente Usa Donald Trump. L’altro scenario che ha tenuto banco ieri è la proposta israeliana di riapertura del valico di Rafah, uno snodo vitale per l’afflusso di aiuti umanitari e il transito di richiedenti asilo fra la Striscia e il Cairo. Tel Aviv ha annunciato la riapertura del valico nei prossimi giorni e la possibilità di fuoriuscita dei gazawi alla volta dell’Egitto, in «coordinamento» con il Cairo, dopo il via libera delle autorità israeliane e sotto il monitoraggio dell’Unione europea. Le autorità del Cairo, citate dai media israeliani, hanno smentito qualsiasi interlocuzione con Tel Aviv in materia e posto un «veto» sulla riapertura «unilaterale» di Rafah. Le tensioni rimangono anche su campo, fra gli ultimi scampoli della vicenda sulla restituzione dei (due) cadaveri degli ostaggi ancora nelle mani di Hamas e nuove vittime sul fronte. La Croce Rossa ha consegnato alle Forze di difesa israeliane e allo Shin Bet presenti nella Striscia di Ga2a la salma dell’ostaggio rinvenuto da Hamas e Jihad islamica nel nord dell’enclave palestinese, dopo che i «resti» delle vittime consegnate martedì non sono stati attribuiti né al cittadino thailandese Sudthisak Rinthalak né all’ufficiale di polizia Ran Gvili. Ora, scrive l’ufficio del primo ministro, «la bara sarà trasferita in Israele, presso il Centro nazionale di Medicina legale del ministero della Salute», e che dopo «l’identificazione, e in base ai risultati, verrà fatto un annuncio ufficiale alla famiglia». Sul campo, il ministero della Salute di Ga2a ha parlato ieri di 357 palestinesi uccisi solo nei primi 50 giorni dall’avvio della tregua lo scorso 10 ottobre. Le Israel defense forces dichiarano che cinque soldati israeliani sono rimasti feriti, di cui uno in modo grave, negli scontri a Rafah, nel sud della Striscia di Ga2a. Netanyahu promette vendetta: «Hamas ha violato la tregua – ha dichiarato – Risponderemo».

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