Le Ragioni di Israele

Esplosione del porto di Beirut, Hezbollah ha insabbiato la verità. Indagare in Libano è impossibile

di Paolo Crucianelli - 4 Dicembre 2025 alle 14:05

Il 4 agosto 2020, alle 18:08 ora locale, Beirut fu scossa da una devastante esplosione nel suo porto. Un’esplosione talmente potente da essere considerata, da numerosi esperti e analisti militari, la più grande deflagrazione non nucleare mai avvenuta in un’area urbana nella storia moderna. Oltre 200 persone morirono, migliaia rimasero ferite, interi quartieri vennero rasi al suolo. Le immagini fecero il giro del mondo: un fungo bianco, simile a quello un ordigno nucleare, che cancellava in pochi secondi la zona portuale. Sin dalle prime ore successive alla tragedia, molti osservatori puntarono il dito verso Hezbollah, nonostante il gruppo negasse ogni coinvolgimento. Il motivo era semplice: la sostanza esplosa — 2750 tonnellate di nitrato di ammonio — è la stessa utilizzata nella produzione dei missili e degli esplosivi impiegati dal gruppo filo-iraniano.
Esplosione del porto di Beirut, Hezbollah ha insabbiato la verità
Ma indagare su Hezbollah in Libano è quasi impossibile: il movimento sciita è profondamente infiltrato in ogni livello dell’apparato statale, dai ministeri all’esercito, dalla magistratura alle agenzie doganali, fino ai servizi di sicurezza. Ogni tentativo di far luce sul caso si è scontrato con un muro di silenzi, intimidazioni, sostituzioni di giudici, vere e proprie campagne di delegittimazione e, come vedremo, omicidi. Ed è proprio in questo contesto che, negli ultimi giorni, l’esercito israeliano ha diffuso una ricostruzione destinata a riaprire completamente il dossier. In una dichiarazione diffusa dal portavoce dell’IDF, Avichay Adraee, specialisti dell’esercito sostengono che l’Unità 121 di Hezbollah — una struttura d’élite incaricata di “eliminazioni mirate” — avrebbe assassinato almeno quattro personalità libanesi che possedevano informazioni cruciali in grado di collegare direttamente il gruppo allo stoccaggio del nitrato di ammonio nel porto di Beirut.
Indagare in Libano è impossibile
Le vittime sarebbero, secondo l’IDF, funzionari delle dogane e giornalisti investigativi che, negli anni, avevano denunciato irregolarità o si erano avvicinati troppo al cuore del caso. Gli omicidi, riportati anche da Ynet, Jerusalem Post, Haaretz e i24News, si succedono in un arco temporale che va dal 2017 al 2021, e formano — se le accuse fossero confermate — una vera e propria campagna di eliminazione sistematica.
Secondo la ricostruzione diffusa dall’IDF, la prima vittima di questa strategia di silenziamento sarebbe stata Joseph Skaff, ex capo delle dogane del porto di Beirut. Già nel 2017, tre anni prima dell’esplosione, Skaff aveva segnalato la presenza del nitrato di ammonio chiedendone ufficialmente la rimozione, denunciandone la natura sospetta, l’estremo pericolo di un tale stoccaggio, e i potenziali legami con Hezbollah. Poco dopo le sue denunce, morì in circostanze archiviate come “incidente”: secondo l’IDF, invece, sarebbe stato gettato da una finestra da membri dell’Unità 121 per impedirgli di andare oltre.

Dopo la deflagrazione, le eliminazioni — sempre secondo l’intelligence militare israeliana — si intensificarono. Nel dicembre 2020, appena pochi mesi dopo l’esplosione, venne trovato ucciso Monir Abu Rajili, responsabile dell’unità anti-contrabbando delle dogane libanesi. L’uomo sarebbe stato in grado di fornire documenti interni che collegavano lo stoccaggio del nitrato di ammonio a reti riconducibili a Hezbollah. Fu trovato accoltellato nella sua abitazione: un omicidio rimasto ufficialmente irrisolto. Nello stesso mese, un’altra morte sospetta colpì chi aveva avuto un ruolo diretto nelle prime fasi dell’indagine. Il fotografo Joe Bejjani, tra i primi a documentare il luogo dell’esplosione e successivamente incaricato dall’esercito libanese di realizzare analisi tecniche sulle immagini del cratere, fu ucciso a colpi d’arma da fuoco mentre era in auto davanti casa sua. I suoi assassini non rubarono nulla, tranne il suo telefono: per l’IDF, un indizio certo che quel dispositivo contenesse immagini o dati sensibili che potevano mettere seriamente in difficoltà Hezbollah.

L’ultimo caso, in ordine temporale, è quello più noto anche all’opinione pubblica internazionale: l’assassinio di Lokman Slim, intellettuale sciita, editore, documentarista e una delle voci più apertamente critiche verso Hezbollah. Nel febbraio 2021, appena due mesi dopo l’uccisione di Bejjani e Abu Rajili, Slim fu trovato crivellato di colpi nella sua auto nel sud del Libano. Aveva da poco accusato pubblicamente Hezbollah e il regime di Bashar al-Assad di essere i responsabili dell’esplosione del porto. Per l’IDF, il suo omicidio rappresenta un messaggio intimidatorio esemplare: chiunque tenti di collegare Hezbollah al nitrato di ammonio rischia di fare la sua stessa fine.

L’esercito israeliano inserisce questi casi in una lista più ampia di omicidi politici in Libano, mai risolti, tra cui quelli dell’ex primo ministro Rafik Hariri e della figura politica Elias al-Hajj. Di fatto, a cinque anni dall’esplosione, nessun responsabile è stato condannato. I giudici che hanno tentato di proseguire le indagini sono stati rimossi o minacciati. Le famiglie delle vittime parlano apertamente di “omicidio di Stato”. Beirut porta ancora le cicatrici del 4 agosto 2020. L’esplosione non fu solo una tragedia: fu la manifestazione dolorosa di uno Stato paralizzato, infiltrato e — come molti libanesi dicono — ostaggio di Hezbollah.

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