IHRA, dall’antisemitismo alla critica a Israele: giù le mani dall’ebraismo. E dalla sinistra
di Carmen Dal Monte - 5 Dicembre 2025 alle 15:17
Sul manifesto del 4 dicembre Roberto Della Seta sostiene che introdurre nell’ordinamento italiano la definizione di antisemitismo dell’International Holocaust Remembrance Association (IHRA) equivalga a limitare la libertà di critica verso Israele.
È una tesi netta, ma che regge poco a un esame rigoroso delle sue premesse e passaggi logici. Non tanto perché presenta l’IHRA come dispositivo censorio, ma perché costruisce una contrapposizione artificiale tra “critica a Israele” e “antisemitismo”, trattandole come sfere impermeabili quando storia e attualità mostrano il contrario.
L’antisemitismo contemporaneo nasce dalla delegittimazione assoluta di Israele nello spazio pubblico. Sostenere che la legge favorirebbe “una confusione che apre all’antisemitismo” capovolge la dinamica. Il rischio reale non è censurare chi critica Israele, ma l’aggressione contro ebrei europei per fatti lontani nei quali non giocano alcun ruolo.
Andiamo con ordine. Secondo Della Seta la definizione di antisemitismo elaborata dall’IHRA “qualifica come antisemita ogni critica radicale contro Israele e verso il sionismo quale sua ideologia fondativa”. Al contrario, il testo afferma che “Criticism of Israel similar to that leveled against any other country cannot be regarded as antisemitic.” E aggiunge che i “Contemporary examples of antisemitism” sono elencati “taking into account the overall context”. Nel discorso di Della Seta, questa clausola scompare. “Può costituire” diventa “è sempre”, e il criterio contestuale diventa automatismo punitivo. È questo scarto semantico a trasformare un concetto internazionale di tutela in minaccia alla libertà di parola. Ma è una costruzione retorica, diretta contro chi, a sinistra, condivide una posizione già adottata da 43 Paesi e da istituzioni europee.
L’editoriale fa sparire un altro fatto: in Italia forme di censura linguistica esistono già. Dal 2015 la Carta di Roma chiede agli iscritti ai giornalisti di sostituire “immigrato clandestino” con “straniero senza documenti” anche quando non corrisponde allo status giuridico della persona. È una prescrizione lessicale che non genera allarmi democratici tra i difensori della libertà di espressione. Ma perché allora la definizione IHRA diventa la frontiera della censura? Poiché la selettività dell’indignazione è parte del problema, vogliamo credere che l’allarme sull’AGCOM non dipenda dalla guida attuale di centrodestra, e che un identico grido si sarebbe levato anche sotto quella del compianto compagno Stefano Rodotà.
Naturalmente la posizione di Della Seta è legittima, ma resta una tra tante. Non rappresenta il consenso della comunità scientifica, delle istituzioni che si occupano di antisemitismo o delle organizzazioni ebraiche internazionali. È una lettura possibile, senza essere la sola. Presentarla come l’unica compatibile con la libertà di espressione significa trasformare un punto di vista in dogma, senza riconoscere la pluralità delle analisi e senza misurarsi con la rappresentatività e la responsabilità richieste da un fenomeno complesso come l’antisemitismo contemporaneo.
Della Seta teme che equiparare certi attacchi a Israele all’antisemitismo confonda “ebrei” e “Stato di Israele”. Poche righe dopo, usa espressioni come “crimini quotidiani a Gaza”, “scorribande criminali dei coloni”, “deriva nazionalista, razzista, illiberale dello Stato di Israele”. Eliminata la distinzione tra governo, esercito, società civile, contesto bellico, diritto internazionale, il suo “Israele” è un monolite dalla connotazione morale negativa. Trasformare uno Stato in entità morale indivisa è il meccanismo perverso dell’antisemitismo politico contemporaneo.
Il punto non è restringere la libertà, ma riconoscere come l’odio antiebraico si sia riformulato. Dire che Israele ha governi sbagliati, politici pericolosi o scelte discutibili è legittimo. Dire che Israele è razzista per essenza, che è un progetto coloniale incompatibile con la democrazia, o paragonarlo al nazismo non è un’opinione politica: è l’essenza della retorica che nella storia europea ha preparato pogrom, esclusioni e violenze contro gli ebrei. L’IHRA non limita la critica a Israele; indica quali narrazioni agiscono da vettori di antisemitismo travestito da politica.
Della Seta tratta l’antisemitismo come un fenomeno storico separato dalla questione israelo-palestinese, rimuovendo del tutto la sua dimensione contemporanea. Per farlo, deve ignorare che i cortei degli ultimi due anni hanno cantato lo slogan eliminazionista “Palestina libera dal fiume al mare”; che il 7 ottobre ha scatenato un’ondata di antisemitismo in Europa e negli USA; che ogni giorno sinagoghe, scuole e perfino supermercati kasher sono presi di mira per ritorsione contro Israele. Ignorarlo è irresponsabile.
Della Seta presenta la Jerusalem Declaration on Antisemitism (JDA) come fonte giuridica alternativa all’IHRA. Ma è retorica di parte. Si tratta di un documento elaborato da studiosi che – anche qui, legittimamente – propongono una loro lettura. I suoi limiti principali sono che non è mai stata adottata da alcuna istituzione internazionale e che vari storici dell’antisemitismo la criticano come banalizzatrice della dimensione contemporanea dell’odio.
La delega all’AGCOM non crea nuovi reati né introduce censura politica. Richiede la rimozione di contenuti d’odio antisemita nel quadro già esistente dell’ordinamento italiano, che sin dal 1975 vieta l’incitamento alla violenza razziale. L’idea di “sanzionare Lerner, Foa o questo giornale” è un martirio indimostrato.
Oggi il meccanismo centrale dell’antisemitismo è l’identificazione dell’ebreo con l’israeliano. Quella sinistra che evita questo nodo, o lo minimizza per timore di apparire “troppo vicina” a Israele, non difende la libertà: abdica alla realtà. Della Seta denuncia rischi inesistenti e ignora quelli reali. Confondendo critica e delegittimazione, libertà e impunità, indebolisce la capacità di riconoscere la trasformazione dell’antisemitismo, che oggi s’intreccia con la demonizzazione di Israele e solo di Israele.
Israele non chiede protezione. Sono gli ebrei a essere esposti alle conseguenze delle parole che scegliamo — o rifiutiamo — di definire.