A 43 anni dall’attentato alla Sinagoga di Roma: quel sabato di sangue che cambiò l’Italia e la Comunità ebraica
di Jonatan Della Rocca - 9 Ottobre 2025 alle 14:32
Sono passati 43 anni, ma quella giornata del 9 ottobre 1982 rimane impressa nella mente e scolpita nel cuore. Era una giornata tipica dell’ottobrata romana, con un po’ di sole e il venticello autunnale del ponentino. Via Catalana, nella quale ho abitato per trent’anni sin dalla nascita, era silenziosa e poco trafficata di veicoli diversamente dal solito. Dopo aver partecipato alla preghiera all’interno del Tempio, uscii con qualche amico, sostando all’altezza delle palme (dove oggi è presente la targa del Largo Taché) in attesa di aspettare gli altri compagni con i quali ci intrattenevamo solitamente a chiacchierare, terminate le preghiere. Si respirava un’aria di festa con tante famiglie accorse per la benedizione dei bambini, celebrata in quello shabbat di Shemini Atzeret.
All’improvviso, alle 11:52, si scatenò l’inferno. Colpi di mitragliatrici e bombe scandirono quel mezzogiorno di fuoco. Sparati da due uomini, appostati all’androne del civico uno. Non vidi i loro volti ma solo le sagome con la coda dell’occhio. Due minuti indimenticabili. Un tempo che non finiva mai. L’istinto di sopravvivenza ci portò a scappare, percorrendo Via Catalana, fino a Piazza delle Cinque Scole, che per ironia della sorte fu la stessa via di fuga dei terroristi. Passati gli scoppi, ripercorsi la strada all’inverso e trovai il mondo cambiato. Via Catalana era divenuta un campo di battaglia. Urla e pianti di gente alle finestre, sirene spiegate di ambulanze e vetture della polizia che sopraggiungevano, e uomini con la pistola di fuori si aggiravano nella via nell’inutile e tardiva caccia ai killer. Tra le macchine posteggiate divelte dai proiettili erano accasciati sul terreno i corpi bagnati di sangue di tanti feriti, a cui si prestavano i primi soccorsi. Ancora non si sapeva che il piccolo Stefano Gaj Taché non ce l’avrebbe fatta. Altri 40 feriti, dei quali alcuni gravemente, completarono il bilancio di quel tragico shabbat romano. Ritrovai lì davanti a mio padre, Rav Vittorio Chaim Della Rocca, che si era salvato dietro la porta di ingresso del Tempio. Potete immaginare l’emozione. Ci fu un abbraccio stretto senza dirsi tante parole.
La Comunità ebraica si era sentita abbandonata. Quella mattina di sabato 9 ottobre, davanti alla Sinagoga centrale di Roma, non erano presenti né polizia né carabinieri sebbene i responsabili della sicurezza, e in primo luogo il ministro degli Interni, ne avessero assicurato la presenza. Le ragioni di tale assenza non furono mai chiarite. Emerse dalle carte dell’Unione delle Comunità israelitiche che il 12 agosto era stata mandata la missiva con l’inclusione del 9 ottobre tra le date per le quali era stata richiesta una protezione particolare per le festività, visto anche il crescente odio antisemita scatenatosi in Europa dopo la guerra in Libano di quel periodo con attentati sanguinari a Vienna, Anversa in luoghi di culto ebraici. Fu talmente grave la frattura con le istituzioni che fu permesso solo a Marco Panella e all’allora presidente del Consiglio, Giovanni Spadolini, fieri sostenitori delle ragioni di Israele, di porgere la solidarietà e sostare nel luogo dell’attentato pochi minuti dopo l’accaduto. Anche il Presidente della Repubblica Sandro Pertini, visto il suo incontro a Roma nel mese precedente con il leader dell’Olp, Yasser Arafat, la cui organizzazione nello statuto proclamava la distruzione dello Stato ebraico, solo dopo alcune telefonate schiette con il rabbino capo Elio Toaff, partecipò ai funerali del piccolo Stefano.
Da mesi, in seguito alla guerra in Libano dell’esercito israeliano per colpire le infrastrutture terroristiche dell’Olp di Arafat, si era scatenata una campagna di odio antisemita mediatico con gravi responsabilità del mondo politico e mediatico.Anche sulle indagini sull’attentato da subito calarono silenzi e ombre che non aiutarono le ricerche. Il filoarabismo era una scelta che accomunava gran parte delle forze parlamentari. Erano gli anni del “lodo Moro”, o “patto Giovannone”, l’accordo segreto tra Olp e Stato Italiano che permise ai palestinesi, come era stato accordato agli israeliani, di agire liberamente sul suolo della Repubblica a condizione che non fossero compiuti attentati terroristici in Italia, ma come rivelò Cossiga, “quel patto, pur proteggendo i cittadini italiani, non comprendeva possibili obiettivi ebraici”.
L’attacco terroristico palestinese al Tempio Maggiore di Roma va considerato alla pari dei misteri insoluti che caratterizzano i tragici fatti di Ustica, Bologna e Piazza Fontana. Ancora a distanza di decenni, rimane pieno di ombre e omertà. Fu attribuita la responsabilità al gruppo terroristico palestinese di Abu Nidal. Fu condannato anni più tardi in contumacia, con l’ergastolo, un componente dell’organizzazione: Osama Abdel Al Zomar, scappato dall’Italia e poi in Grecia, dal quale non fu concessa l’estrazione. Vista la latitanza, non pagando nemmeno un giorno di pena nelle patrie galere.
Giusto qualche settimana fa dalla Francia è giunta la notizia che è stato arrestato dalla polizia dell’Autorità nazionale palestinese Hicham Harb, noto anche come Mahmoud Khader Abed Adra, considerato tra gli ideatori dell’attentato alla Sinagoga di Roma. Sulle basi delle rivelazioni di un pentito agli inquirenti francesi sulle indagini sull’attentato avvenuto nell’agosto dell’82 al ristorante ebraico Jo Goldenberg, perché entrambi gli attentati, secondo gli inquirenti, sarebbero stati compiuti dalla stessa matrice terroristica.
Solo con il riconoscimento del piccolo Stefano tra le vittime del terrorismo a opera del presidente Napolitano, e poi grazie al suo successore Mattarella con il ricordo del grave attentato nel suo discorso d’insediamento, qualcosa si è mosso nella Memoria del 9 ottobre. Il passare degli anni non ha cancellato in noi testimoni il ricordo di un attacco terroristico vissuto sulla propria pelle, su una generazione che fino ad allora non aveva provato per fortuna una simile esperienza diretta. Facendoci ripiombare nell’abisso della storia, delle persecuzioni secolari antisemite. Da allora il tratto di strada di Via Catalana, come appare oggi, fu chiuso al traffico. Con le scuole e le istituzioni ebraiche blindate e protette dalle forze dell’ordine. Nel tempo si è normalizzata un’emergenza antiterroristica come se fosse normale vivere, andare a scuola, o pregare e studiare nei centri di preghiera e didattici, con la paura dell’agguato imminente e del pericolo da affrontare. Pare che il tempo si sia accorciato, come se il 9 ottobre 1982 fosse ieri.
Nell’ultimo anno si è rinvigorito quel clima presente nell’82. Certo, tante situazioni sono cambiate. Allora non c’era la Rete e di conseguenza i social. Ma la virulenza ebbe tratti simili al contesto odierno: con episodi antisemiti, attentati, morti e sangue e continue richieste agli ebrei di discolparsi dalle politiche del governo israeliano. Con un coinvolgimento delle masse studentesche in cortei che non si limitano a sostenere diritti umanitari, ma spesso promuovono una propaganda con striscioni, cori e atti di violenza di stampo antisemita. Che portano per strada ciò che in questi ultimi mesi è presente a tambur battente in diversi talk show di politica che dedicano a senso unico, in molti casi senza contraddittorio, una disinformazione da far impallidire ciò che succedeva quarant’anni fa. Una miopia politica e mediatica che non riconosce, come non voleva riconoscere ieri, che il grave pericolo che incombe sulla società è sempre, anche a distanza di più di quarant’anni, il terrorismo di natura islamica.