Un sistema flessibile

Alto Adige, modello per Israele e palestinesi? Una convivenza pacifica grazie a 30 cantoni

di HaKol - 13 Luglio 2025 alle 12:24

In tempi di fratture identitarie e conflitti etnici che sembrano insanabili, vale la pena volgere lo sguardo a un paradosso poco discusso ma illuminante: quello dell’Alto Adige-Südtirol. Questa provincia, annessa all’Italia al termine della Prima guerra mondiale e storicamente di lingua e cultura tedesca, è oggi una delle zone più ricche e autonome d’Europa. Un risultato impensabile negli anni della colonizzazione fascista e delle tensioni etniche del secondo Dopoguerra. Ciò che fu teatro di scontro è diventato modello di coesistenza. Una trasformazione che interroga anche il conflitto israelo-palestinese e potrebbe offrire un paradigma post-Oslo.

Dopo la Prima guerra mondiale, l’Alto Adige fu strappato all’Impero austro-ungarico e annesso all’Italia. Il fascismo impose l’italianizzazione forzata: lingua tedesca soppressa, toponomastica riscritta, immigrazione dal sud, cultura nazionale imposta. Una comunità intera si vide negare identità, radici, rappresentanza. Il malcontento esplose negli anni ’50 e ’60, con proteste, attentati, repressioni. Sembrava l’anticamera di un conflitto insanabile.

Fu grazie alla diplomazia internazionale, soprattutto al ruolo dell’Austria e all’intervento dell’Onu, che nel 1972 si giunse a un nuovo statuto d’autonomia, radicale e innovativo. L’Alto Adige divenne una provincia autonoma con ampie competenze legislative e finanziarie, tutela della lingua tedesca, proporzionalità etnica negli uffici pubblici, scuola separata per lingua. Roma rinunciò a un controllo assimilazionista in cambio di pace, stabilità e sviluppo. Il risultato fu sorprendente: invece di generare secessione, l’autonomia rafforzò la convivenza. I sudtirolesi smisero di sentirsi colonizzati e iniziarono a riconoscere nell’Italia una cornice negoziabile. Una pace costruita non sulla forza, ma sul riconoscimento reciproco.

Mutatis mutandis, il paradosso altoatesino offre spunti profondi per la questione israelo-palestinese. Anche qui, due popoli convivono (o si scontrano) su una stessa terra, tra rivendicazioni storiche, cicli di violenza, fallimenti diplomatici. Il processo di Oslo ha immaginato una soluzione binazionale con confini rigidi. Ma il tempo ha logorato questa visione: né sicurezza per Israele né sovranità effettiva per i palestinesi. Ecco allora emergere in Israele il movimento federalista: una proposta che non nega né l’identità ebraica dello Stato né l’autodeterminazione araba, ma immagina un modello multi-regionale. Autonomie locali forti, rappresentanza proporzionale, lingue riconosciute, cittadinanza condivisa ma pluralistica. Una “Israele a regioni” dove villaggi arabi, città miste ed enclavi religiose possano autogovernarsi in armonia.

Il movimento federalista israeliano – The Federation Movement – propone di dividere l’intero territorio israeliano, Cisgiordania compresa, in circa 30 cantoni autonomi, ciascuno dotato di potere legislativo e amministrativo locale. Ogni cantone rifletterebbe la composizione etnica e religiosa della sua popolazione, garantendo piena rappresentanza ai suoi cittadini. Ebrei, arabi musulmani, cristiani, drusi e laici potrebbero vivere secondo i propri valori e norme, senza temere imposizioni centraliste. Tutti i cantoni resterebbero uniti sotto una cornice federale comune, con una sola cittadinanza e Capitale a Gerusalemme. Questo modello non promette utopie, ma stabilità: un sistema flessibile, adatto a un territorio complesso, dove identità molteplici possono convivere non per fusione forzata, ma per rispetto istituzionale.

Il punto non è annullare le differenze, ma governarle. Se ogni gruppo sente garantite lingua, cultura e rappresentanza, il bisogno di scontro si riduce. Così, come Roma ha smesso di temere il tedesco, Israele potrebbe smettere di temere un’identità araba interna. L’autonomia non è una concessione di debolezza, ma uno strumento di forza democratica. Israele potrebbe trarne una lezione: l’inclusione non è resa, ma strategia. La vittoria più duratura non si ottiene con la sovrapposizione, ma con l’incastro.

Il grande archivio di Israele

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