Per Israele
ANPI contro Israele, il cortocircuito ideologico di un’associazione senza memoria
di HaKol - 20 Giugno 2025 alle 15:53
In un recente comunicato ufficiale, l’Associazione Nazionale Partigiani Italiani ha condannato “l’aggressione israeliana all’Iran” e sollecitato il governo italiano a richiederne la cessazione. Ennesimo cortocircuito ideologico di un’organizzazione, sorta in memoria della lotta di resistenza al nazifascismo, che da tempo non riesce più riconoscere e sostenere la battaglia di un paese democratico contro una dittatura che ne giura la distruzione. Questo non è un caso isolato.
Lo scorso 16 giugno, il segretario Pagliarulo aveva definito il governo israeliano “una minaccia alla pace mondiale”, senza sentirsi in dovere di ricordare né il motivo che lo costringe oggi alla guerra né la spietata efferatezza dei regimi contro cui lo Stato ebraico combatte. Già in passato l’ANPI ha ricevuto pesanti critiche, anche da parte della politica, per la propria ambiguità nel confondere l’aggressore con l’aggredito, la pace con la resa. Un paradosso inevitabilmente frutto di un’amnesia storica, forse derivante dalla lunga pax europea postera alla Seconda guerra mondiale, che ha fatto dimenticare il prezzo pagato per “quel fior del partigiano, morto per la libertà”. Che ha fatto dimenticare il sogno del mondo nuovo per cui tanti giovani hanno lottato fino a restare esanimi alle pendici dei monti, con le divise forate dai proiettili nazifascisti.
Quelle divise, oggi, vestono la Stella di David. Non più gialla e rilegata al petto di un pigiama a righe, ma di un blu acceso che spicca accanto alla scritta Zahal. Un esercito di altrettanti giovani, come lo erano quelli italiani, che di fronte all’orrore della Shoah ha giurato Mai Più. Mai più col capo chino e in fila verso la morte. Mai più ridotti a numeri davanti all’indifferenza di quel mondo che ieri si girava altrove e che oggi vorrebbe spiegare a Israele come sconfiggere letali regimi antisemiti attraverso il dialogo, la de- escalation e il diritto internazionale, sbandierati sempre e solo in un’unica direzione. Il pragmatismo d’Israele è stato la chiave della sua sopravvivenza. Se così non fosse stato, per soddisfare l’inutile approccio teorico altrui, Nasser avrebbe vinto la Guerra dei sei giorni, gli ostaggi di Entebbe sarebbero morti in Uganda e Eichmann sarebbe rimasto per sempre un distinto signore tedesco in terra argentina.
L’ANPI e buona parte della Sinistra hanno dimenticato che difendere la libertà ha un costo. Lo stesso pagato dagli inglesi di Churchill e dagli americani di Roosevelt nel venirci a liberare. Qualcuno avrebbe mai chiesto a Washington e Londra, durante la guerra, di fermare l’escalation di fronte all’avanzata nazifascista? La realtà, per quanto dura e difficile da accettare, è diversa da quella sbandierata dai vuoti proclami di pace: non si può negoziare con un nemico che non ha alcuna intenzione di fermarsi. Oggi Israele vive quel momento, quella guerra esistenziale. Accerchiata da gruppi terroristici, minacciata dalla dittatura islamica iraniana che arricchisce l’uranio per scopi militari, assediata dall’opinione pubblica che vede il pericolo in uno Stato aggredito e non in un regime sanguinario che esporta morte nel mondo. Nell’ora più buia, lo Stato ebraico non demorde e non perde “la speranza due volte millenaria” di essere un “popolo libero nella terra di Sion e Gerusalemme”