L'intervista

Antisemitismo, Giancarlo Loquenzi: “Più facile adeguarsi allo spirito del tempo che resistere. ‘Genocidio’? Parola usata in modo improprio”

di HaKol - 12 Ottobre 2025 alle 10:40

Parla con noi Giancarlo Loquenzi, giornalista di grande esperienza, oggi popolare conduttore di Zapping su Radio Rai.

Ti ha colpito l’ondata di antisemitismo degli ultimi tempi?
«Mi ha colpito moltissimo. Ho avuto l’impressione di un vero e proprio coming out. Chi aveva un fondo antisemita e lo teneva a bada per vergogna o per un interdetto sociale ha visto quei vincoli crollare. Quel sentimento è emerso in mille modulazioni, ma con un significato preciso: finalmente lo possiamo dire, e questo non porta discredito ma applausi».

C’è una responsabilità dei media?
«Sì, ma non solo. Governi, istituzioni, università, sindacati, intellettuali, spettacolo: ovunque si guardi, la vita pubblica è stata infettata da questo clima e l’infezione è esplosa. Il mondo dei media, in particolare, si adatta al vento del momento: è conformista. Non ha voglia di sostenere una posizione controcorrente, per paura dell’isolamento o delle critiche. È stato più facile adeguarsi allo spirito del tempo che resistere».

La firma del cessate il fuoco può cambiare l’opinione pubblica?
«Me lo auguro. Mi aspetto che i teorici del genocidio, quelli che hanno invaso pagine e talk show con prediche di odio, abbiano meno visibilità. Se i media tolgono loro il palco, la gente avrà spazio per altri pensieri. Non si può continuare a essere soltanto la voce della catastrofe. La necessità di raccontare la pace ridimensionerà quel flusso di veleno».

Il termine “genocidio” è stato usato in modo improprio?
«Sì. Molti intellettuali e sindacalisti hanno gridato “genocidio” per sentirsi dalla parte giusta della storia. È diventata una scorciatoia morale, un modo per autoassolversi. Ora, davanti alle piazze di Gaza in festa e alla fine dei combattimenti, quella retorica si svuota. Chi ha costruito la propria reputazione su quella parola oggi si trova spiazzato».

Come valuti la posizione di Hamas dopo la guerra?
«Hamas ha creduto di stravincere, di incendiare la regione e spezzare gli Accordi di Abramo. Invece si ritrova isolata, osteggiata da oltre venti Stati arabi e musulmani, priva del sostegno dell’Iran e del Qatar. Israele si è accollato il peso di una guerra durissima. Ma quella pressione militare ha cambiato gli equilibri e aperto la strada all’accordo. In ogni guerra i civili soffrono, ma a Gaza non avevano vie d’uscita: nessuno Stato confinante li ha accolti, e i tunnel servivano solo ai terroristi. È stato un conflitto senza scampo per la popolazione, usata da Hamas come scudo».

Come giudichi la reazione dell’opinione pubblica occidentale?
«L’antisemitismo, che come dicevo era rimasto sul fondo dell’animo occidentale, è venuto a galla. È stato un coming out globale e liberatorio: “siamo tutti antisemiti, morte agli ebrei”. E giù applausi. Quel sabba di odio ha avuto spazio ovunque, ma il piano Trump lo interrompe. A Sharm el-Sheikh i “genocidari” e i “genocidati” si sono stretti la mano. Non si è mai visto un genocidio che finisce così».

Cosa ti aspetti adesso?
«Un reflusso di quell’acidità che è stata immessa nella nostra fisiologia collettiva. Se i media smettono di amplificare le profezie di sventura, se la politica lavora alla ricostruzione, ci sarà spazio per ragionamenti più lucidi. Serve meno tribunale morale e più attenzione ai fatti, alla responsabilità delle nazioni, alla vita dei civili».

E il compito del giornalismo oggi?
«Tornare alla fatica del racconto complesso. Spiegare, verificare, mettere in prospettiva. Non rincorrere solo l’indignazione. Offrire strumenti per capire, non solo per giudicare. È un lavoro lungo, ma è l’unico che restituisce credibilità al nostro mestiere».

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