Esteri

Antisionismo e antisemitismo, le due facce dello stesso odio

di HaKol - 18 Giugno 2025 alle 18:20

Negli ultimi mesi, nel dibattito italiano, si continua a distinguere tra antisionismo e antisemitismo. Una distinzione cruciale, ma talvolta invocata per negare l’esperienza concreta di chi, come molti ebrei in Europa, avverte un crescente clima di ostilità. Quando un uomo si arroga il diritto di definire cos’è il sessismo, viene messo in discussione. Ma se un ebreo denuncia un linguaggio antisemita, spesso si trova corretto, ridimensionato o messo a tacere.

Una narrazione ricorrente nella retorica pro-palestinese consiste nel sostenere che antisionismo e antisemitismo siano completamente distinti, e che chi richiama la memoria dell’Olocausto lo faccia in modo strumentale. Si arriva persino ad affermare che “chi si nasconde dietro la tragedia dell’Olocausto fa orrore”. Un’affermazione che richiama un’antica e pericolosa narrativa europea: quella dell’ebreo manipolatore, che sfrutta il proprio dolore a fini di potere. Un’immagine carica di storia, tutt’altro che innocua. Questa retorica suggerisce anche che Israele non sia altro che un “risarcimento” offerto dall’Occidente agli ebrei per espiare le proprie colpe. Così facendo, si oscura una lunga storia di aspirazioni nazionali e autodeterminazione ebraica. Israele viene presentato non come esito di un progetto politico consapevole, ma come una concessione dall’alto, negando implicitamente agli ebrei il diritto a essere soggetto politico e storico.

Si assiste inoltre alla ripetizione di immagini forti e univoche: sangue, bambini, vittime innocenti. È legittimo denunciare crimini di guerra, ma quando il linguaggio ignora del tutto cause, contesti e responsabilità, rischia di evocare archetipi antigiudaici antichi come il mito del “sacrificio di sangue”. Un altro argomento diffuso nella propaganda consiste nel dire che gli arabi non possono essere antisemiti in quanto “semiti” essi stessi. Ma l’“antisemitismo” è un termine nato nell’Ottocento europeo per indicare in modo specifico l’odio razziale verso gli ebrei, non una generica avversione per chi parla lingue semitiche. Negarlo significa distorcere la storia stessa della parola.

Il sionismo viene poi frequentemente etichettato come forma di colonialismo. In realtà, esso nasce come risposta a secoli di persecuzioni in Europa e rappresenta un movimento di liberazione nazionale in territori che erano stati sotto il controllo ottomano e successivamente europeo dopo la Prima guerra mondiale. Slogan come “fine dell’occupazione, inizio della pace” possono avere un significato chiaro se riferiti alla Cisgiordania. Ma se per “occupazione” si intende l’intero territorio tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo, allora si sta di fatto negando il diritto all’esistenza di Israele. È questo il sottotesto implicito nella formula “Palestina libera dal fiume al mare”: per alcuni è una richiesta di giustizia, per altri una minaccia esistenziale. Le parole, anche se pronunciate in buona fede, vanno scelte con estrema attenzione.

La Nakba è stata senza dubbio una tragedia. Ma lo è stata anche la cacciata di centinaia di migliaia di ebrei dai Paesi arabi a partire dagli anni ’50. La pace non può nascere dalla negazione selettiva della sofferenza dell’altro. Il compito di chi osserva da fuori, soprattutto in Europa, dovrebbe essere quello di creare spazi in cui possano convivere memorie diverse, senza cedere alla tentazione di imporre una narrazione unica che cancella l’altro. Solo così, forse, si potrà iniziare a costruire una pace duratura.

Il grande archivio di Israele

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