Ancora minacce a Il Tempo dal predicatore di Torino. Fa gli eventi con la Cgil e difende l’imam Shahin

Brahim Baya, l’uomo che elogia la vita del terrorista Yaya Sinwar ora ha anche l’appoggio della Cgil. Quello che dovrebbe essere lo storico sindacato italiano, si unisce a Baya nella sua nuova iniziativa: «Nasce ufficialmente NUR, narrazioni umane di resilienza. La nostra prima iniziativa in collaborazione con Cgil Torino è dedicata a Ga2a», ha scritto il predicatore su Facebook. Baya che proprio lo stesso giorno ha lanciato l’ennesima pesante accusa contro Il Tempo: «Stanno preparando il terreno per la mia deportazione dal mio paese». Ma non siamo stati noi a definire Sinwar un «la voce della resistenza. Metteva in guardia da anni l’occupazione dalle conseguenze dei suoi atti criminali». E ancora «Yahya Sinwar è caduto come vivono gli uomini liberi: affrontando l’invasore, ferito, con le mani spezzate, circondato dalle rovine, ma ancora capace di scagliare il suo bastone contro il drone del nemico», commenta celebrandolo a «un anno dal suo martirio, ricordiamo l’uomo che disse con il suo silenzio: “Siamo qui, restiamo qui”. Il suo nome, come quello dei suoi fratelli, rimane inciso nella pietra della Storia» insieme a «tutti i resistenti del mondo. Il mondo non dimentica i suoi eroi. La Resistenza non muore». Insomma, se non si conoscesse il soggetto sarebbe complesso pensare che si tratti di un uomo di Hamas, verrebbe più semplice ritenerlo un benefattore dell’umanità, una povera vittima uccisa da criminali, non un assassino. Ed è lo stesso Baya che difende Mohamed Shahin, della moschea Omar Ibn Al Khattab di via Saluzzo detenuto in un cpr per motivi di sicurezza nazionale. E per questo Baya ieri era alla manifestazione dell’Api di Mohammad Hannoun, ritenuto dal dipartimento del Tesoro Usa l’uomo di Hamas in Italia. Chissà se il segretario Maurizio Landini sarà contento che la sezione torinese del sindacato organizzi eventi con chi apertamente sostiene Sinwar. E qui siamo oltre l’appoggio del 7 ottobre. Siamo all’esaltazione della figura che si cela dietro un attentato. E quello che Il Tempo ha fatto è stato solo raccontare le sue parole. E dalla piazza di Milano di Hannoun ha pensato bene di prendersela anche con l’esecutivo, definendo Mohamed Shahin «un prigioniero politico del governo Meloni. Non c’è un’altra definizione possibile per un uomo perseguitato non per ciò che ha fatto, ma per ciò che ha detto: per aver denunciato un genocidio, per aver difeso la dignità di un popolo, per aver alzato la voce dove altri hanno scelto il silenzio. Oggi divide la sorte di tante persone che, in Italia, pagano un prezzo altissimo solo per aver espresso un’opinione scomoda al potere. E questo dovrebbe inquietare tutti: credenti e non credenti, italiani e non». Ha ovviamente omesso i legami dell’imam con gli esponenti del terrorismo, facendo passare come censura quella che non è censura. Perché son o centinaia i cortei ProPal in cui il dissenso è la regola numero uno. Ma Shahin non è uno dei tanti, è un esponente della frangia politica dell’islam, la fratellanza musulmana, ed è ritenuto un pericolo per la sicurezza nazionale, tanto che la Corte d’Appello ha rigettato la sua richiesta di rifugio.

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