Bibi e gli impuniti della Cisgiordania

L’articolo de La Stampa rappresenta un esempio di narrazione integralmente colpevolista e decontestualizzata. Si concentra unicamente sulla violenza dei coloni e delle Forze Israeliane in Cisgiordania, affermando che la tregua a Gaza non ha portato alcuna pausa alla violenza lì. Il pezzo denuncia l’incendio della moschea di Deir Istyā da parte dei coloni , l’aumento degli attacchi (264 attacchi di coloni a ottobre, il numero più alto monitorato dall’ONU) , le restrizioni di mobilità , e l’alto numero di palestinesi uccisi, compresi i bambini. La violenza è descritta come un “attacco sistematico contro la popolazione civile” e una “crisi umanitaria strutturale”. L’articolo manca totalmente di pluralità di fonti e di un equilibrato contraddittorio, omettendo ogni riferimento al contesto di sicurezza che porta alle incursioni, ai checkpoint e alle restrizioni: ovvero la minaccia terroristica che promana dalla Cisgiordania. In tal modo, si trasforma un contesto di conflitto complesso in una semplice storia di vittime innocenti e aguzzini impuniti.

Nel cuore della Cisgiordania, nella notte fra il 12 e il 13 novembre 2025, gruppi di coloni israeliani hanno fatto irruzione nel villaggio di Deir Istya. Sono entrati nel cortile della moschea Hajja Hamida, hanno cosparso di benzina il pavimento della sala di preghiera e gli hanno dato fuoco. Prima di andarsene hanno scritto sulle pareti, in ebraico: “Ci vendicheremo ancora”. Quando i residenti sono arrivati le copie del Corano erano ormai cenere. Non era il primo attacco che la comunità subiva, ma certamente il più simbolico. Le autorità israeliane hanno condannato l’episodio. Come consuetudine, la dichiarazione non è stata seguita da nessun arresto, né punizione, ma da totale impunità. Il cessate il fuoco a Ga2a è scattato il 10 ottobre. Da allora, mentre la Striscia viveva una tregua fragile e parziale, in Cisgiordania la violenza non ha conosciuto una pausa. Ottobre ha registrato 264 attacchi di coloni israeliani contro palestinesi: il numero più alto da quando l’Onu ha iniziato il monitoraggio. Nel lessico del conflitto sono numeri che scorrono veloci, ma sul terreno hanno una forma precisa: alberi bruciati, strade chiuse, case segnate da incursioni notturne, auto capovolte e date alle fiamme. La stagione della raccolta delle olive, di solito il periodo più laborioso ma anche più comunitario dell’anno, è stata quella più colpita. Circa 150 attacchi, 140 feriti, oltre 4.200 alberi distrutti. Per molti villaggi, quegli alberi sono il principale sostegno economico. Perderli significa perdere mesi di lavoro e parte del reddito annuale. Nelle zone rurali, come a Masafer Yatta, la violenza ha una forma costante: contadini cacciati dai loro campi, pastori inseguiti da gruppi di coloni armati, tende bruciate, greggi disperse. Nei campi profughi, le incursioni militari sono la grammatica del quotidiano. L’allerta non è dichiarata, è un’abitudine. I residenti parlano di una sensazione di compressione: strade che fino a qualche mese fa erano aperte ora sono bloccate da checkpoint mobili, vicoli dove i ragazzi giocavano diventati corridoi di pattuglie, isolati che al tramonto restano deserti per evitare problemi. Il 17 ottobre l’Ufficio Onu per i diritti umani ha diffuso un dato che racconta due anni di escalation: mille palestinesi uccisi in Cisgiordania dal 7 ottobre 2023, uno su cinque era un bambino. Non sono numeri eccezionali: sono numeri costanti. Dal 2023, gli scontri e le operazioni militari nella Cisgiordania occupata si sono sovrapposti senza soluzione di continuità. Quando la tregua è entrata in vigore a Ga2a, qui l’andamento non è cambiato: sparatorie durante le retate, aumenti degli arresti, espansione degli avamposti dei coloni, nuove aree dichiarate zone militari chiuse. Dentro questo quadro, pochi giorni fa Human Rights Watch ha pubblicato il suo ultimo rapporto sulla Cisgiordania. Un documento che ricostruisce le operazioni militari dei mesi scorsi nei campi profughi di Jenin, Tulkarem e Nur Shams. Secondo l’organizzazione, circa 32.000 persone sono state costrette a lasciare le loro case tra gennaio e febbraio. Molti edifici sono stati demoliti, altri resi inabitabili. Le testimonianze parlano di evacuazioni rapide, annunciate da droni che sorvolavano i tetti ordinando di uscire. Le famiglie hanno raccontato di aver preso ciò che potevano in pochi minuti, senza alcuna certezza di poter tornare. Alcuni residenti hanno trovato riparo nelle scuole, altri in case di parenti. Nessuno ha ricevuto indicazio

ni precise su quando o se avrebbero potuto rientrare. Human Rights Watch colloca questi eventi dentro un processo più lungo di demolizioni sistematiche, di espansione degli insediamenti illegali, della violenza dei coloni e delle restrizioni di movimento. L’organizzazione parla di un «attacco sistematico contro la popolazione civile», una definizione che richiama la categoria dei crimini contro l’umanità. Non si tratta, per Hrw, di un’operazione limitata nel tempo, ma di un insieme di pratiche che, sommate, producono lo svuotamento graduale di alcune aree della Cisgiordania. Molti residenti che hanno lasciato i campi non riescono più a tornare: le strade sono danneggiate, alcune case non esistono più, altre zone sono state dichiarate aree militari. Le immagini satellitari mostrano isolati interi interrotti da fosse, barriere o macerie. Nel frattempo, nella Cisgiordania centrale e settentrionale, gli attacchi dei coloni sono continuati, con un incremento senza precedenti. L’incendio della moschea di Deir Istya ne è un esempio, ma non l’unico. Nelle settimane successive si sono verificati altri episodi simili: auto bruciate, strutture religiose vandalizzate, campi dati alle fiamme. In alcuni casi gli attacchi sono avvenuti nelle stesse località più volte in pochi giorni. Gli abitanti raccontano che, dopo ogni episodio, la domanda è sempre la stessa: quanto tempo passerà prima del prossimo? I bambini restano le vittime più esposte. Tra l’11 e il 17 novembre, le forze israeliane hanno ucciso quattro palestinesi in Cisgiordania: tre erano minorenni. Dall’inizio dell’anno al 17 novembre, i minori uccisi sono 49. Un numero che, nei report delle organizzazioni umanitarie, ricorre con regolarità crescente. Nel campo profughi di Al Far’a, un quattordicenne è stato colpito durante una retata. I familiari raccontano che stava tornando da un negozio; le forze militari sostengono che lanciasse pietre. Il suo nome si aggiunge a una lista che aumenta settimana dopo settimana. La vita quotidiana dei palestinesi cambia in modi che non garantiscono un titolo al giorno, che non fanno notizia, ma che definiscono ogni giornata di milioni di persone. Le restrizioni alla mobilità aumentano: tratte che una volta richiedevano pochi minuti ora diventano tragitti incerti, fatti di deviazioni obbligate e attese ai checkpoint che si moltiplicano. I tempi di percorrenza raddoppiano, talvolta triplicano. Per andare al lavoro, per raggiungere la scuola, per arrivare in ospedale: ogni percorso è un calcolo di rischio, di orario, di strade possibili. Molti lavoratori hanno perso i permessi per entrare in Israele da cui dipendeva il reddito familiare; altri li rinnovano mese dopo mese senza alcuna garanzia. Nelle aree agricole, i contadini si trovano spesso davanti a cancelli chiusi senza preavviso. Intere porzioni di terra vengono dichiarate zone militari temporanee, bloccando la raccolta dell’olio o impedendo l’accesso ai campi durante i giorni del raccolto. Le stesse coltivazioni che sostengono l’economia di villaggi interi vengono così compromesse da decisioni amministrative o dalla presenza di nuovi avamposti dei coloni che sorgono a pochi metri dai terreni palestinesi. Case e negozi restano isolati da blocchi stradali improvvisi, posti per ragioni di sicurezza che però possono durare ore, giorni. Per molte famiglie, raggiungere un ospedale significa affrontare un percorso che da 20 minuti può trasformarsi in un’ora e mezza di controlli, deviazioni e attese. In alcune zone, perfino le ambulanze devono attendere l’autorizzazione per passare, rallentando interventi che dovrebbero essere immediati. A tutto questo si aggiunge la perdita del lavoro, la riduzione delle entrate fiscali, la chiusura di spazi pubblici come parchi, centri culturali, campi sportivi. Luoghi che erano comunità diventano luoghi sospesi, difficili da raggiungere o da attraversare. Anche il semplice atto di fare la spesa, visitare un parente, andare a un funerale richiede tempo, energie, permessi. Per l’Onu questa somma di vincoli non è più un insieme di ostacoli episodici, m

a una crisi umanitaria strutturale: un meccanismo in cui violenza, restrizioni e impoverimento si rafforzano a vicenda. È un ciclo che non esplode mai in un unico momento, ma che si ripete in ogni gesto quotidiano, sottraendo tempo, risorse, possibilità. E modifica lentamente la geografia della vita palestinese, un check-point alla volta, un permesso negato alla volta. In Cisgiordania, ciò che viene chiamato «dopo il cessate il fuoco» non ha assunto alcuna forma di tregua. È una fase in cui la cronaca quotidiana non cambia ritmo, e anzi accelera nelle pieghe meno visibili. In Cisgiordania la violenza non è un’interruzione della normalità, ma il suo sfondo: un insieme di pratiche che si ripetono con costanza sufficiente da diventare parte stabile dell’ambiente, come una infrastruttura parallela che si sovrappone alla vita civile. È nello scarto fra la parola tregua e la realtà che sta la definizione di come si vive oggi in Cisgiordania: un territorio in cui il conflitto non si interrompe, ma si sposta. Si ridisegna. Cambia forma. E continua, mentre altrove si celebrano pause che li non arrivano mai.

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