Bibi “il mago” e l’incantesimo su Israele: mossa a orologeria per ricandidarsi

Non è per caso se tanto i Bibisti quanto i detrattori del campo “Rak Lo Bibi” (“Chiunque tranne Bibi”) lo chiamano “HaKosem”, “il Mago”. La sopravvivenza politica e le manovre strategiche sono specialità in cui Benjamin Netanyahu, il premier più longevo nella storia d’Israele (16 anni quasi ininterrotti), eccelle. Da sempre. Ed eccolo, il nuovo numero magico: liberarsi dalla corda del processo che si stringe attorno al suo collo. Ma non per scomparire, tra gli applausi – e i sospiri di sollievo – di una buona metà dell’elettorato israeliano. Al contrario, la magia ardita di Netanyahu prevede, nel finale, che egli possa candidarsi, vincere le prossime elezioni e «dedicare tutto il suo tempo, le sue capacità e le sue energie al progresso di Israele in questi tempi critici» in cui «sono previsti sviluppi straordinari in Medio Oriente», come scrive il suo avvocato. E, naturalmente, Bibi sarebbe in una posizione avvantaggiata se potesse candidarsi come persona libera da processi pendenti, se gli venisse concessa la grazia. Il sortilegio inizia con un tentativo di ipnosi. In un video di due minuti, subito dopo aver depositato una richiesta formale di grazia al dipartimento legale dell’ufficio del Presidente, Netanyahu spiega via social che in realtà sta facendo un favore al Paese. Perché, spiega ancora, la disposizione della corte di testimoniare tre volte a settimana «paralizza la sua capacità di governare». Del resto, questa è la prima volta che un primo ministro in carica subisce un processo. L’ex premier Ehud Olmert è stato condannato per corruzione, ma si è dimesso prima dell’inizio del processo. E anche «l’equilibrio dei poteri tra giudice e imputato quando Netanyahu entra in aula con tutte le sue guardie – rileva Eli Salzberger, ex preside della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Haifa ed esperto di teoria e filosofia del diritto, e di etica giuridica e Corte Suprema israeliana – non è quello di un processo normale». Fuor da incantesimo, il team legale del premier è riuscito a trascinare e ritardare il processo per sei anni. Ma non sembra che Netanyahu sia riuscito a convincere i giudici della legalità delle azioni a lui contestate con tre capi d’accusa (corruzione, abuso di fiducia e frode per ricezione di regali illeciti e scambio di cortesie con certi media israeliani per ottenere una copertura favorevole). Questo è dunque il momento migliore per sfilarsi dal processo, dopo che il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha preparato il campo durante il discorso alla Knesset del 13 ottobre sull’“alba storica di un nuovo Medio Oriente”. «È tutta una mossa orchestrata», secondo Salzberger. Ora, lo scenario più probabile secondo gli analisti è che il presidente Isaac Herzog concederà la grazia, nonostante Netanyahu, in cambio, non si assuma responsabilità, non si dichiari colpevole, né offra dimissioni – al contrario, nella sua lettera ribalta le colpe della polarizzazione. Secondo la prassi politica, il presidente esamina una richiesta di grazia solo dopo la conclusione di tutti i procedimenti legali e la possibilità di una grazia prima della condanna, pur in presenza di un precedente storico, è estremamente rara perché costituisce una minaccia per lo stato di diritto e mina il principio di uguaglianza davanti alla legge. Ma non sarebbe ancora questa la fine: la questione probabilmente arriverebbe alla Corte Suprema. E sarebbe un’altra occasione, per Netanyahu, di attaccare il sistema giudiziario. E se il numero magico dovesse fallire? Dice Salzberger che «c’è ancora la possibilità (per Netanyahu, ndr) di ricorrere a un patteggiamento. In fondo, teme soprattutto una cosa: finire condannato e dietro le sbarre».

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