Dissensi fra ebrei. Il confronto Di Segni-Lerner
Anche se a Gaza è stato raggiunto un precario armistizio, che non si sa quanto possa reggere e preludere a sviluppi positivi, non perde di attualità il titolo del libro in cui si confrontano il rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni e il giornalista Gad Lerner, Ebrei in guerra (Feltrinelli, pagine 175, e 16). Perché il riferimento non è solo al conflitto in Medio Oriente, ma anche al dissidio che divide l’ebraismo in tutto il mondo, da Gerusalemme a New York, tra una maggioranza che giustifica la durissima reazione israeliana al massacro del 7 ottobre e una minoranza, negli Stati Uniti assai più consistente che in Italia, critica non solo verso il governo di destra guidato da Benjamin Netanyahu, ma più in generale verso quella che giudica una deriva nazional-religiosa deleteria sotto il profilo politico, ma anche spirituale. Sul punto insiste vigorosamente Lerner, denunciando l’egemonia conquistata in Israele da correnti che affermano la sovranità ebraica per diritto biblico dal Giordano al mare e non solo rifiutano l’ipotesi di uno Stato palestinese, ma negano alla radice qualsiasi diritto all’autodeterminazione per gli arabi che vivono in quel territorio, trattati alla stregua di intrusi. Di Segni tende invece a ridimensionare il fenomeno, riconducendolo a visioni esclusiviste che si sono sempre manifestate nel variegato universo ebraico, ma controbilanciate tuttora da un afflato universalistico che non è mai venuto meno nei discendenti del popolo di Mosè. La discussione è molto interessante, specie per un lettore che abbia poca dimestichezza con l’Antico Testamento, per la vastità dei riferimenti storici, filosofici e religiosi a cui si richiamano i due autori. Fanno impressione, ad esempio, le profonde implicazioni di un’attesa messianica per gli ebrei tuttora aperta, un dato che cambia completamente la prospettiva rispetto a quella di chi, magari ateo o agnostico, conta pur sempre gli anni dalla nascita di Gesù e riconosce un valore di fondo alla formula crociana per cui «non possiamo non dirci cristiani». Non ci si può nascondere però che i nodi più spinosi emergono sul terreno politico. Qui il confronto a tratti diviene anche aspro nella sostanza, benché il tono di entrambi gli interlocutori resti sempre nei limiti della cortesia e del rispetto reciproco. Lerner appare angosciato per i comportamenti brutali dello Stato d’Israele, per la sua involuzione in senso etnico, e denuncia l’isolamento nel quale si trovano coloro che dissentono dalla linea di sostegno a Netanyahu prevalente nelle comunità italiane con alcune punte di oltranzismo. Di Segni depreca a sua volta «una perfetta, sofisticata e trionfante offensiva mediatica», per via della quale nelle piazze lo Stato ebraico viene demonizzato, equiparato senza ritegno al Terzo Reich, bollato come una realtà criminale da boicottare e mettere sotto assedio in tutti i modi, rompendo ogni contatto con le sue università, rifiutando l’ospitalità ai suoi turisti negli alberghi e nei ristoranti, addirittura gettando nella spazzatura i farmaci prodotti dalle sue aziende. La coraggiosa lotta su due fronti ingaggiata da Lerner per evitare una rottura irrimediabile tra il mondo ebraico e la sinistra favorevole ai palestinesi (se non addirittura, in alcune frange, ad Hamas) risulta da questo punto di vista assolutamente meritoria. Ma appare anche, inutile nasconderselo, davvero ardua, nei tempi di faziosità diffusa che purtroppo attraversiamo.