Gaza scompare: c’è solo il 7 ottobre. Così Israele scolpisce la sua storia

In Israele la guerra di Gaza è scomparsa, ma il 7 ottobre non è mai finita.Almeno questa è la percezione che il governo israeliano vuole trasmettere alla delegazione di giornalisti italiani che, attraverso l’ambasciata a Roma, ha invitato per un tour del paese. Il tema dominante e non dichiarato è la rimozione del conflitto, per lasciare spazio al processo di memorializzazione del massacro che, dopo il cessate il fuoco e la riconsegna di quasi tutti gli ostaggi, può ora avvenire in relativa pace. Tutti gli interlocutori selezionati, dagli abitanti dei kibbutz trasformati in campi di morte ai sopravvissuti del festival Nova, agli ufficiali dell’ldf fino ai funzionari del ministero degli Esteri e ai rappresentanti della Knesset, ripetono variazioni dello stesso concetto: siamo traumatizzati. E qualunque cosa sia successa nella Striscia negli ultimi due anni—ma anche in Cisgiordania e sul confine con il Libano — va letta e interpretata a partire da quel trauma, generato dall’oscena furia genocidaria che ha mosso la mano di Hamas quel giorno. Il viaggio è parte di una vasta iniziativa di comunicazione del governo israeliano, che ha stanziato un fondo straordinario di 150 milioni di dollari per sostenere la diplomazia pubblica in una fase in cui evidentemente la reputazione globale di Israele è sotto le macerie di Gaza assieme a oltre 70mila vittime. Senza contare le accuse di crimini di guerra. di genocidio e il mandato di arresto della Corte penale internazionale per Benjamín Netanyahu che da ultimo ha anche chiesto la grazia al presidente dalle imputazioni per corruzione, nel nome dell’interesse nazionale, I volti dei morti Rievocare il trauma non è difficile in un paese che ha affissi ovunque i volti e i nomi dei suoi morti. Da Jaffa a Sderot, dalla città vecchia di Gerusalemme ai villaggi drusi del nord. Su ogni cartello stradale, su ogni bacheca, su ogni fermata dell’autobus, su ogni muro, su ogni vetrina, su ogni schermo a led campeggiano le facce di chi è stato massacrato, degli eroi che si sono sacrificati, dei vivi che sono usciti malconci dall’inferno e dei morti che attendono di riposare degnamente dopo l’ultimo rituale. Le gigantografie dei martiri sono una presenza costante in Medio Oriente, ma siamo abituati alTiconostasi a scopo propagandistico nelle strade di Beirut o Teheran, non nel centro di Tei Aviv, città libertina e arcobaleno con una vita notturna leggendaria dove a che domina la scena; “Pace su Israele”. Nel sud. vicino al festival musicale diventato uno dei simboli della strage, hanno portato oltre 1.600 automobili bruciate dai terroristi quel giorno lungo la strada. Le hanno impilate a formare un gigantesco muro di ruggine sul quale piangere e fare silenzio. Siamo nei pressi dell’insediamento religioso di Tkuma, creato m una notte del 1946 nel conteso territorio del Negev. Il nome significa resurrezione. Adam Ittah, il portavoce dell’Ìdf che ci accompagna, dice che questo luogo diventerà «lo Yad Vashem del 7 ottobre», un memoriale permanente del più efferato attacco agli ebrei dopo l’Olocausto. Mostra l’ambulanza che era vicino all’area del palco quel giorno. Venti persone si sono ammassate nel veicolo illudendosi che almeno quello fosse un riparo sicuro. Due sono riusciti miracolosamente a ruggire, le altre sono state fatte esplo- dere e carbonizzate con granate Rpg. Ittah è molto scocciato perché i media occidentali non parlano di storie come queste, mentre a parti invertite le piazze pro-Pal avrebbero gridato, vandalizzato e bruciato bandiere israeliane per settimane di fronte a tanta crudeltà. Lo scopo memorialistico di questo Yad Vashcm contemporaneo è però anche interno. Attorno ai luoghi del 7 ottobre si è sviluppata un’industria della memoria che lavora per formare la coscienza del popolo israeliano e preparare la nuova fase di un conflitto che appare inevitabile, visto che tutti gli interlocutori istituzionali selezionati dall’ambasciata dicono che Hamas è ancora in piedi II muro delle automobili, come il sito del festival Nova, è la meta di un organizzatissimo andirivieni di pullman che porta turisti, scolaresche, pellegrini, parenti delle vittime, soccorritori, sopravvissuti, testimoni dell’orrore, soldati Tutte le vittime del trauma collettivo vengono qui a fare memoria e a diffondere consapevolezza. Fra questi c’è anche Yoni (nome di fantasia), un ragazzo di 18 anni che è in visita ai luoghi del 7 ottobre con la sua classe. Yoni viene da Nahariya, una atta del nord, sulla costa,amail maree fa surf Frequental’ultimo anno delle superiori, Dopo il diploma farà per un anno il volontario in un’assodazio- ne che attraverso gli sport acquatici aiuta i ragazzi neurodivergenti. Poi andrà nelTesercito per Ere anni, come tutti i maschi israeliani a eccezione degli haredim. «Ci hanno portato qui per essere più consapevoli del motivo per cui combattiamo», spiega. U fotografo ufficiale L’area selvaggia vicino a Be’im dove 378 persone sono state massacrate nei modi più bestiali e 44 sono state rapite è una costellazione di dolori e storie. Si cammina in un labirinto dì fotografie delle vittime, dove si sono accumulati oggetti personali, messaggi, saluti, tributi, opere d’arte e abbracci per chi non è mai tornato dal Nova festival Davanti a molti dei volti ritratti, di solito nei momenti belli, c’è qnalcuno che piange. A vegliare sul popolo in lutto c’è una gigantesca stella di David composta con sculture di anemoni coronarie rosse, il fiore che domina in questo pezzo d’Israele, e c’è anche un cubo di cemento su cui i visitatori sono invitati a non scrivere nulla. È un provvisorio rifùgio antimissile è bene che non venga scambiato per un’installazione. Sullo sfondo degli arbusti che tutto il mondo ha negli occhi da quel giorno, gli autobus fanno manovra nei parcheggi, le guide alzano l’ombrello per farsi vedere, i visitatori con il tierretto da pescatore cercano di sintonizzare la radiolina sul canale giusto, ² turisti fanno la fila per ² bagni chimici, i sopravvissuti indicano con le dita i luoghi dove si sono nascosti o si sono finti morti fra i cadaveri per sfuggire ai terroristi. Ma2al Ta2azo è un’artista di 35 anni che è sopravvissuta in modo miracoloso all’attacco, mentre i due amici con cui era andata al festival sono stati uccisi. Vive a Netivot, una atta a pochi chilometri di distanza, con il figlio di il anni. Il 7 ottobre le ha lasciato moke ferite, alcune non si vedono. Dopo cinque mesi dall’attentato ha iniziato a raccontare la sua storia a chi visita il memoriale, poi ha preso a viaggiare per diffondere la testimonianza di un trauma che per essere elaborato deve essere condiviso. Così la sua testimonianza personale è diventata un compito pubblico. Un analogo senso di missione si sente nel racconto di Ziv Koren, uno dei più importanti e premiati fotogiornalisti di Israele che ha passato gli ultimi 35 anni fra teatri di guerra e scenari di disastri di qualunque genere. La mattina del 7 ottobre ha subito inforcato la moto in direzione del pericolo, come capita spesso a chi fa questo mestiere. Il primo giorno ha discusso con il direttore del suo giornale perché non voleva mettere in pagina fotografie troppo cruente, ma quel giorno tutto quello che aveva visto e fotografato erano cadaverL «È stato un grave errore non mostrare fino in fondo l’orrore dell’attacco», spiega Koren, che da allora non ha fatto altro che fotografare storie legate al 7 ottobre. Ha ritratto i funerali, le famiglie delle vittime, la riabilitazione dei feriti, persone in coma che sono risvegliate, gente che ha attraversato la valle nera del dolore ed è entrata alla vita e gente che ancora vaga in LUI regno intermedio. Lo ha fatto tutti i giorni, per 10 ore al giorno, trasformando il lavoro di testimonianza fotogiornalistica in memorialistica ufficiale. L’Idf gli ha dato un livello di accesso alle operazioni nella to che camminano sulle macerie, bonificano case semidistrutte, scovano gli ingressi dei tunnel, cercano indizi sull’attività del nemico. Ma non si vedono mai le vittime.

Il grande archivio di Israele

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