Gerusalemme troppo vecchia per illudersi sulla pace

Com’è contradditoria Gerusalemme, sta lì da cinquemila anni eppure ha la fragilità del precario tanto che, come per tenersi a mente dell’età che ha, gli edifici nuovi, dal quartiere di Rehavia a quello di Talpiot, devono essere rivestiti della stessa pietra di allora, che riflette l’oro rosso del tramonto e il rosa cremoso dell’alba, e i suoi cittadini son sempre di corsa, persino dove si scivola, sulle strade appena lavate, di prima mattina, nella città vecchia. Per David Street, quando il mercato è ancora chiuso, gli uomini fan grandi balzi giù per i gradini e appena dietro si affrettano le donne, a passi corti, perché indossano gonne lunghe e strette e a fare falcate non si riesce. A quell’ora lì, tra le 5 e le 7, corrono anche i cristiani: è l’unico momento in cui al Santo Sepolcro possono celebrare messa e allora ne dicono tante, una dietro l’altra, ogni mezz’ora, in inglese, in italiano, in tedesco, al Calvario e nella Tomba. Solo i soldati non hanno appuntamenti e lungo le strade vanno avanti e indietro, con la flemma dei forti. Nella terra che ha abitato per la prima volta tremila anni fa, da cui è stato cacciato, in cui è ritornato, da cui è stato cacciato di nuovo e in cui aveva iniziato a tornare in massa alla fine del 1800, il popolo ebraico va di fretta ma sa aspettare. «Questa pace? Probabilmente non sarò qui a vederla. Sarà un lungo viaggio: non si tratta di una guerra territoriale, è religiosa», ha detto Buaz Bismuth, che ha fatto il giornalista per quarant’anni, corrispondente di guerra nei Paesi arabi, prima di diventare presidente del Comitato per gli Affari esteri e difesa della Knesset, il parlamento di Israele. Parla un inglese impetuoso, e tiene il tempo, nell’incedere delle frasi, sbattendo di tanto in tanto il palmo delle mani sul tavolo. Quando non gli viene un termine passa al francese, cita Alexandre Dumas e Dante e dà consigli di lettura, «Legga Il mondo di ieri di Stefan Zweig». La settimana scorsa era in prima pagina sul Jerusalem Post per il suo disegno di legge sulla leva militare degli Haredim: sta facendo litigare tutti e l’aveva anticipato: «Se riuscirò a non far contento nessuno, dagli ultraortodossi all’esercito, dall’opposizione ai media, avrò scritto il testo perfetto». Ha il copione pronto e una cartucciera di battute che piacciono, usate sicure: «Domani compio gli anni. Quanti? Indovini. Mi chiamo Bismuth, eh, non Bismarck», «Sono alla mia prima legislatura eppure mi è stato affidato questo ruolo. Perché? Perché sono bravo». Alle soglie della fase 2 dell’accordo di pace di Donald Trump, quando ancora due corpi dei rapiti sono nelle mani di Hamas, per capire la linea delle istituzioni israeliane dobbiamo tornare indietro a Golda Meir, prima e unica donna a ricoprire la carica di Primo ministro di Israele, e alla verità che trasmise all’allora senatore 30enne Joe Biden: «Noi non ci preoccupiamo. Noi israeliani abbiamo un’arma segreta. Non abbiamo altro posto dove andare». Il democratico se lo sentì dire nel 1973, poco prima che scoppiasse la guerra dello Yom Kippur, quando Egitto e Siria attaccarono simultaneamente Israele. Bismuth ha ripetuto lo stesso concetto, nel suo ufficio, in parlamento: «Chi vuole vederci collassare sappia che siamo qui per restare». Sanno aspettare, appunto. Ma come? Al ministero degli Esteri la linea è chiara: gli Stati Uniti sono riusciti a portare i terroristi al tavolo dei negoziati; la transizione dalla fase 1 alla seconda è una sfida che coinvolge la comunità internazionale; dopo aver disgregato i proxy dell’Iran ora Hamas deve essere eliminato. Nel West Bank ha l’appoggio dell’80% della popolazione, a Ga2a del 50%, ha appuntato il diplomatico George Deek, direttore del Dipartimento per il Sud Europa. «Senza l’impegno di una Forza internazionale di stabilizzazione dovremo eliminare Hamas da soli. L’alternativa è vivere con la paura di un altro 7 ottobre. Le persone non prendono abbastanza sul serio Trump quando dice che se Hamas non accetterà di disarmarsi, si scatenerà l’inferno…». Il problema non è tanto l’instabilità nel breve termine, ma la sicurezza nel lungo termine, prateria in cui le minacce si moltiplicano: niente si sa delle condizioni di salute del nucleare iraniano, l’esercito libanese sta fallendo nel disarmo di Hezbollah, che contrabbanda missili oltre il confine siriano e sta ripristinando posizioni e basi, la nuova Siria di Al Sharaa è una manna per le grandi potenze e per quelle regionali (Usa, Russia, Turchia, Giordania) ma, Deek è cauto, prima di scommettere su un cavallo, ovvero prima di togliere le sanzioni, è meglio vederlo correre. Nell’attesa, a Gerusalemme si corre per migliorare la capacità di deterrenza di Israele: forze armate qualitativamente più forti, un Iron Dome tecnologicamente più sofisticato, un’intelligence in grado di rispettare la promessa che gli ebrei fecero ai figli dopo la Shoah, “Never again”, mai più. Il game changer della regione, però, sarà l’Arabia Saudita che, dicono al Ministero e ripetono fonti del Mossad, era ad un passo dall’ingresso negli Accordi di Abramo prima del 7 ottobre. L’obiettivo è un Medio Oriente non più mero collegamento tra Asia e Europa, ma una regione a sé stante, fulcro per la difesa, il commercio, l’energia, le comunicazioni, l’intelligenza artificiale. La posta in gioco, una saldatura tra Israele e il mondo arabo sunnita, è altissima: è la politica dei blocchi, che parte da qui, passa da Washington, guarda a Riad. Dall’altra parte ci sono Iran, Cina, Russia e Corea del Nord. E Gerusalemme lo sa che sta lì da cinquemila anni eppure ha la fragilità del precario.

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