Il futuro di Gaza passa dall`Onu

Analisi chiara, documentata e priva di sensazionalismi. Vita spiega con equilibrio il significato del voto ONU, il ruolo degli Stati Uniti e i limiti di un multilateralismo che non può ignorare la responsabilità di Hamas né i vincoli di sicurezza di Israele. Il pezzo offre una lettura realistica delle prossime fasi, evitando semplificazioni ideologiche.

Dopo più di un mese dall’inizio della tregua, a Gaza, il piano di 20 punti di Donald Trump sul futuro della Striscia resta ancora avvolto dal mistero. Il presidente degli Stati Uniti ha scommesso tutto sulla ricostruzione sul fatto cha quella regione non rappresenti più un pericolo per Israele. Ma il percorso verso la realizzazione del suo progetto, apparso da subito in salita, adesso rischia di essere decisamente impervio. Alla Cnn, qualche funzionario Usaha suggerito anche la possibilità che Hamas non venga disarmata in questa fase. Il passaggio al Consiglio di Sicurezza della Nazioni Unite è risultato da sempre fondamentale, dal momento che i Paesi arabi hanno voluto un mandato chiaro. Hamas ha detto che non avrebbe accettato contingenti stranieri non guidati dall’Onu. E la Russia, in questi giorni, ha fatto anche circolare la sua bozza di risoluzione che prevedeva un potere decisionale in capo al segretario generale. La trattativa è stata lunga e complessa. L’ultima versione prima del voto ha visto l’inserimento di clausole sulle Forze di Sicurezza che dovrebbero operare per il “disarmo permanente dei gruppi armati non statali”. Viene affermato il ruolo di Israele, dell’Egitto e della polizia palestinese insieme alle forze multinazionali. C’è anche la conferma della nascita di un “Consiglio per la Pace”, presieduto da Trump stesso, che dovrebbe “governare” la transizione fino al 2027. Ma tra le varie clausole è apparsa anche quella su un possibile futuro stato di Palestina. L’idea è quella che una volta che Gaza sarà in via di ricostruzione e l’Autorità Nazionale Palestinese realizzerà determinate riforme strutturali, “potrebbero finalmente crearsi le condizioni per un percorso credibile verso l’autodeterminazione e la statualità palestinese”. Ma se da Washington è arrivato l’avvertimento a non seminare discordia al Palazzo di Vetro, a preoccupare Trump è soprattutto la levata di scudi del governo israeliano. Il premier Benjamin Netanyahu, sui suoi canali social, è stato chiaro. “La nostra opposizione a uno Stato palestinese in qualsiasi territorio non è cambiata. Gaza verrà smobilitata e Hamas disarmato, nel modo più facile o nel modo più difficile. Non ho bisogno di rinforzi, tweet o prediche da nessuno” ha tuonato “Bibi”. Il ministro delle Finanze, Bezalel Smotrich, ha avvertito che ha lavorato “duramente” per “annientare l’idea di uno Stato palestinese” e che farà di tutto affinché non vi sia alcun riconoscimento implicito. Mentre l’altro leader dell’estrema destra, il ministro per la sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir ha addirittura minacciato la ripresa degli omicidi mirati nei confronti dei più alti funzionari dell’Anp fino all’arresto del presidente Abu Mazen. Per Netanyahu, l’opposizione a qualsiasi documento che riguarda la possibile nascita di uno Stato palestinese è fondamentale, soprattutto in vista della campagna elettorale che già sembra iniziata. Ma per Trump ora il problema è anche quello di gestire non solo il futuro di Gaza, ma anche un Medio Oriente che appare in un equilibrio molto precario. The Donald deve tenere a bada Netanyahu ma non può nemmeno abbandonare l’alleato israeliano. Allo stesso tempo però vuole rafforzare il suo rapporto con i Paesi arabi, in particolare con le monarchie del Golfo. E la soluzione appare tutt’altro che semplice. Oggi è previsto l’incontro alla Casa Bianca con il principe saudita, Mohammed bin Saman, che mancava negli States in via ufficiale da sette anni, cioè dall’omicidio del giornalista del Washington Post Jamal Khashoggi, avvenuto nel consolato saudita di Istanbul. Sul tavolo dell’incontro, i tre principali dossier del tycoon per la regione: la normalizzazione dei rapporti tra Arabia Saudita e Israele, il ruolo di Mbs nelle nuove realtà creato a Gaza, in Siria e in Libano, ma soprattutto tecnologia e vendita di armi e sistemi. Riad vorrebbe da Washington i caccia F-35. Ma nello Stato ebraico è già scattato l’allarme. Vendere quegli aerei ai sauditi significherebbe diminuire la superiorità tecnologica dell’aviazione israeliana in Medio Oriente. E sul New York Times, sono già apparsi i timori dell’intelligence riguardo la possibilità che attraverso Riad la tecnologia di quei caccia possa arrivare fino a Pechino.

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