Il Papa ad Ankara vola alto e ricorda il ruolo dei cristiani in Turchia, Erdogan punta su Gaza e si presenta come uomo di pace (curdi addio)
Un giorno del Ringraziamento particolare, quello del primo Papa americano della storia. Niente tavola imbandita con tacchino ripieno in mezzo, ma un bicchiere d’acqua posato su un tavolino come unico conforto dinanzi all’interminabile discorso pronunciato da Recep Tayyip Erdogan in una bella sala del palazzo presidenziale di Ankara. Era il primo giorno del viaggio internazionale che dopo la Turchia porterà Papa Leone XIV in Libano. Nel suo intervento, Erdogan ha ripercorso i rapporti tra il suo paese e la Sede apostolica (cordialmente evitando le frizioni con Benedetto XVI e, soprattutto, con Francesco, quando richiamò in patria il proprio ambasciatore), arrivando a toccare i temi della più stretta attualità geopolitica: le guerre in corso e, tra queste, i “bombardamenti che continuano” di Israele contro “chiese, ospedali e tutti i luoghi di culto”. Il leader turco ha citato espressamente l’attacco della scorsa estate contro il complesso della Sacra famiglia a Ga2a e si è detto ben felice che “l’illustre ospite”, come del resto “i suoi predecessori”, la pensino come lui sul tema, e cioè che servono due stati secondo i confini del 1967. Uomo di pace, s’è implicitamente definito, anche quando s’è fatto poeta: “Non vale la pena sporcare il mondo nemmeno con una goccia di sangue”(chissà cosa ne penseranno i curdi). Più alto il discorso di Leone, nel senso che non è entrato in questioni specifiche. Si è augurato che la Turchia “possa essere un fattore di stabilità e di avvicinamento fra i popoli, al servizio di una pace giusta e duratura”, ha sottolineato che “oggi più che mai c’è bisogno di personalità che favoriscano il dialogo e lo pratichino con ferma volontà e paziente tenacia. Dopo la stagione della costruzione delle grandi organizzazioni internazionali, seguita alle tragedie delle due guerre mondiali, stiamo attraversando una fase fortemente conflittuale a livello globale, in cui prevalgono strategie di potere economico e militare, alimentando quella che Papa Francesco chiamava ‘Terza guerra mondiale a pezzi’. Non bisogna cedere in alcun modo a questa deriva! Ne va del futuro dell’umanità”. Ma non ha parlato né della crisi israelo-palestinese né del conflitto russoucraino, pure citato da Erdogan come esempio della forza mediatrice di Ankara (l’accordo sul grano da lui mediato). Quel che invece Prevost ha detto all’inizio del suo intervento, quasi en passant, è rilevante e meno scontato (meno scontato perché detto subito, ad Ankara): “Desidero assicurare che all’unità del vostro paese intendono contribuire positivamente anche i cristiani, che sono e si sentono parte dell’identità turca, tanto apprezzata da san Giovanni XXIII, da voi ricordato come il ‘Papa turco’per la profonda amicizia che lo legò sempre al vostro popolo”. Non è una frase messa lì per caso, perché il problema dell’identità delle minoranze cristiane nella Turchia sempre più nazionalista è assai avvertito: all’inizio del Novecento i cristiani nel decadente impero ottomano erano quattro milioni, oggi in Asia minore sono centomila. Dal 1923 è stato possibile edificare solo una chiesa in tutto il paese. Mostrarsi un buon padre della patria anche per i cristiani fa gioco a Erdogan. Almeno fino a domenica, quando Leone partirà per Beirut.