Il reportage: Israele, eterno memoriale a cielo aperto
Un reportage equilibrato e documentato che racconta Israele attraverso i luoghi della memoria e il loro ruolo nella società, mettendo in relazione storia, identità e resilienza democratica. Moroni evita contrapposizioni ideologiche e offre un contesto ampio, mostrando la complessità del Paese senza cedere alla retorica anti-israeliana. È il pezzo più fondato della giornata, utile per comprendere Israele al di là delle narrazioni polarizzate.
I ragazzi con la muta e la tavola da surf sotto al braccio, alle cinque del mattino, quando il sole non ne vuole ancora sapere di alzarsi, tagliano il lungomare Tayelet di Tel Aviv e affondano i piedi nella sabbia bianca delle spiagge di fronte ai grattacieli, pronti a solcare le onde gentili del Mediterraneo. I suoni muti di Mahame Yehuda, lo shuk incastrato nel cuore di Gerusalemme e oggi vuoto di turisti, dove si rincorrono colori e profumi in un crocevia di religioni, diffidenze reciproche e timori che qualcosa di inaspettato, di brutto, possa sempre accadere. La liturgia ortodossa davanti al Muro del pianto e il Bar Mitzvah festante dei ragazzini che, compiuti i 13 anni, entrano nell’età responsabile religiosa. Le nuvole di polvere nel deserto del Negev che scortano i viaggiatori fino ai terreni punteggiati dagli alberi dove, poco più di due anni fa, si tenne il tristemente celebre Nova festival. Un’area trasformata oggi in una distesa di foto dei ragazzi uccisi, di messaggi, ninnoli e preghiere. AL DI LÀ DEL MURO Poi, quella barriera elettrificata lungo il border, il confine che si vede dalla collina di Sderot. E di là, piccola, in una giornata di pioggia insistente ma leggera, spunta l’unica veduta possibile di Ga2a che lascia solo immaginare distruzione e morte. Di qua, i kibbutz come quello di Kfar A2A che sembra un villaggio vacanze fuori stagione, ma che mostra ancora i segni dell’orrore. E infine quel cimitero di auto – ne hanno accatastate 1.650 – bruciate nell’attacco ai ragazzi del festival. IL PERCORSO E LE TAPPE Il viaggio organizzato per i giornalisti dalla ambasciata israeliana a Roma svela il volto di un Paese fermo su se stesso, che ha cristallizzato quanto accaduto il 7 ottobre 2023 e che oggi ha costruito un ‘memoriale del dolore’ a cielo aperto, in modo che tutto resti a imperitura memoria. E dalle parole delle persone che è stato possibile incontrare – un reporter, esponenti del governo e membri del ministero degli esteri, due giovani sopravvissuti, soccorritori, un fotografo di guerra – il messaggio è uno solo: il 7 ottobre 2023 Israele è stato attaccato, 1.200 persone (per la maggior parte civili, tanti donne e bambini) sono state uccise, Israele si deve difendere, i terroristi di Hamas devono essere tutti eliminati. Ma sulle migliaia di civili morti sotto le bombe israeliane a Ga2a resta solo un ostinato silenzio. POSIZIONI FERME «Il vero problema è che molti arabi-musulmani non accettano che Israele abbia il diritto di esistere, il popolo palestinese è stato radicalizzato e sia in Cisgiordania sia a Ga2a è governato da mafie e bande, Hamas soprattutto. Ma anche Autorità palestinese e Olp usano metodi mafiosi», è la sintesi del ragionamento di Khaled Abu Toameh, giornalista del Jerusalem Post, di madre araba-palestinese e di padre arabo-israeliano. E quando si prova a mettere sul tavolo del confronto il concetto di proporzionalità, in riferimento alla reazione militare di Tel Aviv ai massacri del 7 ottobre, la risposta è tranchant e sorvola sempre sulle vittime innocenti. «Noi non usiamo i metodi di Hamas – scandisce Boaz Bismuth, presidente della Commissione esteri e difesa della Knesset – non rapiamo e non stupriamo. Se Hamas avesse liberato gli ostaggi e lasciato Ga2a, la guerra sarebbe finita in due giorni. Bisogna impedire che Hamas governi Ga2a». FUORI DALLA KNESSET Davanti alla sede del parlamento israeliano, a pochi passi da Jaffa road, una delle principali strade di Gerusalemme, quando scende la sera e i suoni del traffico si fanno clementi, i riservisti dell’esercito accampati con le tende sui marciapiedi, mostrano un’altra delle mille facce di questo Paese dove c’è anche chi protesta e dissente, in un modo o nell’altro. Uomini e donne, militari senza distinzioni, che ogni volta che vengono chiamati a indossare la divisa e a imbracciare il fucile rischiano di perdere il lavoro e di restare segnati da traumi che mandano in pezzi le famiglie. La loro protesta è per la disparità di trattamento con gli ultra ortodossi, esentati dal servizio militare. AL NOVA FESTIVAL Ma2al Ta2azo, 35 anni e mamma di un bambino di 11, racconta l’orrore vissuto sulla propria pelle, dei tre amici trucidati dai terroristi e di come lei si sia salvata fingendosi morta. Una narrazione che toglie il respiro e lascia smarriti in mezzo a questo campo dove le fotografie delle giovani vittime fanno da dolce ma triste cornice a un quadro da incubo. Poi Ta2azo prende fiato e spiega come non riesca a comprendere l’Occidente che manifesta «a favore di Hamas». «Come se l’11 settembre gli israeliani fossero scesi in piazza per manifestare per Al Qaeda», dice. Come se scendere in piazza per chiedere di mettere fine al massacro dei ga2awi significhi schierarsi con i terroristi. LA CITTÀ FANTASMA A poca distanza dal Nova, c’è Sderot dove vivevano oltre 27mila persone, ma che dopo l’assalto del 7 ottobre, con i terroristi che sparavano e uccidevano lungo le strade, oggi appare vuota e silenziosa. Solo a Tel Aviv, dove il caldo non sembra voler lasciare spazio alla stagione più rigida, con le luci sfavillanti dei locali e i ragazzi che si sfidano a beach volley fino a sera, l’aria che si respira è quella di una qualsiasi città metropolitana. Ma un giovane poco più che ventenne, in t-shirt, bermuda, infradito e un fucile a tracolla mentre aspetta un amico lungo il Tayelet, è l’istantanea di un Paese perennemente sulla difensiva. Dove il governo vuole che l’Occidente ricordi continuamente che Israele è stato vittima di una barbarie inumana, ma che non accetta di riconoscere quanto di altrettanto inumano sta accadendo nella Striscia.