«In Palestina da piccola vedevo ulivi poi solo muri, check point e soldati»

La scrittrice domenica a Camogli: «La soluzione dei due Stati? Impossibile se non finirà il sionismo» Alae Al Said L’INTERVISTA Silvia Neonato A lae Al Said ha genitori palestinesi ma è nata in Italia, dove il padre era venuto a studiare medicina. È laureata in Scienze internazionali, vive a Seveso, collabora con L’Espresso, è sposata con un farmacista siriano e cresce i suoi tre figli, di cui l’ultima ha pochi mesi. È molto legata al suo Paese, ne ha già indagato la storia nel suo primo libro, “Sabun” (2019). Ora torna in libreria con un romanzo avvincente, “Il ragazzo con la kefiah arancione” (Ponte alle Grazie), in cui racconta l’amicizia tra due giovani, Loai e Ahmad, che inizia nel 1961 e attraversa la guerra del 1967 quando Israele, dopo le minacce del leader egiziano Nasser, attacca Palestina, Egitto, Giordania e Siria, infliggendo in sei giorni una dolorosa sconfitta alle popolazioni arabe. Per i due ragazzi è la fine della speranza di poter vivere in un Paese libero, è fare i conti con la morte e la distruzione, con l’emigrazione forzata verso altre terre, come era già accaduto nel 1948. Ma il libro continua fino al 1994 e ha non un solo finale, ma due finali veramente sorprendenti che ci aiutano a comprendere la capacità di resistenza di un popolo che nessuno ha piegato. Leggendo il suo romanzo si avverte una relazione molto forte con la sua gente, le tradizioni, i paesaggi della Cisgiordania da cui la sua famiglia proviene. Va spesso in Palestina? «Abbastanza, l’ultima volta ci sono stata nel 2023. I nostri genitori a noi figli non raccontavano molto delle violenze a cui erano sottoposti i palestinesi, credo per non turbarci troppo. Ma la loro nostalgia era grande, spesso tornava il ricordo del sapore dell’olio di Tulkarem, la cittadina di mia madre o degli amici di Nablus e siamo sempre andati in Cisgiordania dai nostri parenti. Io mi sono resa conto della violenza quando ho visto uccidere, tra le braccia di suo papà, Mohammed al Durra, il 30 settembre 2000, durante la Seconda Intifada nella Striscia di Ga2a. Era un ragazzino come me e il filmato, che poi ha fatto il giro del mondo, è passato in tv su al jazeera. Ho chiesto a mio padre perché gli israeliani sparavano su due persone disarmate dietro a un muretto. Da bambina, quando scendevo in Palestina vedevo solo gli ulivi, la casa dei miei nonni, i parenti. Da allora in poi sono cresciuta e ho notato i muri, i check point, i soldati israeliani». Vorrebbe vivere in Cisgiordania? «In Italia sto bene, mi sento libera, i miei figli crescono sereni, è difficile risponderle. A parte la situazione militare, temo anche di trovare condizioni culturali molto diverse da quelle in cui sono cresciuta. Però una delle mie sorelle è tornata a vivere a Al Khalil (diventata Hebron con l’occupazione) e dice che non si trova male. Certo è circondata da un muro, si sente in prigione e uno dei suoi figli è voluto tornare in Italia e studia qui. Diciamo che non è una cosa che escludo a priori». Il romanzo si svolge appunto ad Al Khalil, che lei dunque conosce bene. La famiglia di Loai è benestante, sua madre Randa, di nascosto dal marito, confeziona abiti tradizionali palestinesi, ma non può venderli perché lavorare fuori casa non le è concesso. «Randa vive negli anni Sessanta, oggi molte cose sono cambiate, scuole e università sono piene di studentesse. Infatti nel mio romanzo, Halima, la nuora di Randa, è docente di matematica e non vuole rinunciare al proprio lavoro dopo le nozze. In ogni caso bisogna ricordare che i palestinesi vivono in un contesto coloniale e quindi anche l’ambiente domestico diventa politico. Intendo dire che per una donna fare figli è una ribellione alla politica di sterminio degli israeliani». In entrambi i suoi libri il conflitto tra voi e gli israeliani è sempre presente. «Impossibile prescinderne, soprattutto dal 1967 in poi. Mio cugino è stato imprigionato, gli hanno rotto le ginocchia e ne parlava con noi durante il pranzo in famiglia: la violenza, i muri, le leggi diverse riservate ai palestinesi, l’apartheid fanno parte della vita quotidiana». È ancora possibile l’idea dei due Stati? «No. Sarebbe la Palestina uno stato sovrano? Potrebbe avere il suo esercito, uno spazio aereo, la proprietà delle risorse? Il piano dei due Stati è stato ideato in un momento pacifico e comunque non prevedeva tutto questo. Ai palestinesi prima bisogna ridare libertà e giustizia, poi si potrà parlare di pace. Il sionismo prevede invece che qualcuno si senta superiore a un altro. Non è tollerabile. Lo Stato di Israele non può continuare a occupare grande parte della Palestina, non intendo dire che gli israeliani vanno deportati, ma allo stesso modo in cui in Sudafrica l’apartheid è finito, in Palestina deve finire il sionismo. Per secoli, prima del sionismo, ebrei, musulmani e cristiani hanno convissuto in pace».

Il grande archivio di Israele

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