Intervista a David Grossman – “Israele ha compiuto errori e crimini Doveva essere casa, non fortezza”

Questa intervista allo scrittore israeliano David Grossman è l’esempio più lampante di come il giornalismo possa trasformare l’autocritica in una pericolosa arma di propaganda. Grossman spinge la sua analisi fino a dichiarare che Israele ha commesso “errori e crimini” e confessa il suo dilemma nell’usare la parola “genocidio” per descrivere la risposta militare a Gaza. Simili affermazioni, cariche di emotività e totalmente prive di contestualizzazione geopolitica e militare, ignorano la realtà della guerra di annientamento condotta da Hamas e la necessità di difesa dello Stato. Equiparare le azioni di Israele, volte a smantellare un’organizzazione terroristica, a crimini internazionali (con il rischio di evocare paralleli storici abietti, come accade spesso in questo tipo di narrazione) è un atto di delegittimazione estrema. L’articolo fornisce munizioni intellettuali a chi cerca di isolare e demonizzare Israele nel consesso internazionale.

David Grossman si presenta afono di fronte alla platea del Circolo dei Lettori di Torino. Ma alla sua voce morale è sufficiente sussurrare per farsi sentire. E con quella voce, Grossman ribadisce: «È nel mio Paese che voglio continuare a vivere e lottare. E trovare le parole per descrivere quello che prima sembrava indescrivibile. Israele è ancora il Paese che amo, a cominciare dal fatto che per la creazione letteraria, uso la mia lingua. Sento il dovere intellettuale di cambiare la società dal di dentro, perché riconosco in Israele i contorni di bellezza e bruttezza, di errori e crimini che vanno riconosciuti ogni giorno. Tanto a noi quanto ai palestinesi, che da più di un secolo vivono assediati da regimi terribili. Non soltanto il nostro – anzi, forse noi non siamo nemmeno i più crudeli – ma anche i terroristi di altri Paesi». La conversazione, nell’ambito dell’ultimo incontro di “Radici. Il festival dell’identità (coltivata, negata, ritrovata)”, ruota attorno al ruolo dello scrittore di fronte alla Storia. A incalzare l’autore israeliano, con sapienza e delicatezza, è Giuseppe Culicchia. Per Grossman, serve «coraggio» per «trovare il modo di coesistere con la memoria» del 7 ottobre e della Shoah, traumi che «non si possono dimenticare». E serve determinazione nel voler capire le spinte dell’essere umano – che «è l’essere più difficile da comprendere» – se si vuole impedire che «continuino a esserci ripercussioni brutali anche sulla politica. E per uscire dal male, per non continuare ad appartenere all’odio, all’orrore. E al pregiudizio. E trovare invece un altro modo di vivere l’esperienza umana e trasmettere questa consapevolezza, questa conoscenza ai nostri figli e ai nostri nipoti». «Ora che c’è la tregua, il genocidio si è fermato», dice come tirando un sospiro di sollievo. Quando ruppe il tabù e usò – in un’intervista con La Repubblica, ad agosto – il termine più controverso della guerra di Israele contro Hamas a Gaza, le reazioni in patria furono «burrascose, ostili. Non c’è stato dialogo, c’è stato quasi un boicottaggio. È stato detto di smettere di comprare i miei libri, c’è chi li ha buttati per la strada». Ma, ancora oggi, difende la decisione di quel momento: «Non ho più potuto non usare quella parola, alla luce dei 60.000 palestinesi uccisi, di cui 19.000 bambini». Una presa di coscienza, spiega, che l’ha portato a non «scegliere più le parole con delicatezza» ma a dire quello che sentiva «in maniera assolutamente diretta» perché quello che sentiva «non poteva rimanere cristallizzato solo tra me e me. Dovevo usare quella parola in maniera esplicita». Precisa anche, ora che quell’impellenza scottante si è intiepidita, a distanza di un mese dal cessate il fuoco a Gaza, che «le parole esatte che ho detto sono state che mi spezzava il cuore dover usare nella stessa frase le parole “genocidio” e “Israele”, il mio amato Paese, che io amo profondamente, è il Paese dove sono nato e dove sono nati tutti i miei figli. E dove voglio continuare a vivere», con il «privilegio di farne parte». «Israele – continua – è stata creata perché il popolo ebraico non fosse più vittima ma perché potesse finalmente avere una casa nel mondo. Dopo 76 anni di sovranità e di indipendenza, non abbiamo ancora trovato il modo». Torna sul concetto di Israele come «fortezza» – ne aveva scritto approfonditamente nell’editoriale del 1° marzo del 2024 sul New York Times – che «non abbiamo ancora reso casa nostra, dove potremo vivere anche accanto ai nostri vicini. Non so se riuscirò a vederlo nel corso della mia vita». La conversazione, nonostante la sala affollata, ha i toni dell’intimità. Grossman accenna ai figli, anche a Uri, ucciso nelle ultime ore della seconda guerra del Libano, il suo carro armato colpito da un razzo mentre tentava di trarre in salvo un altro tank: «Spero che i miei figli resteranno in Israele
così come siamo rimasti noi anche se, ormai più di vent’anni fa, abbiamo perso un figlio in guerra. E che riusciranno a vedere realizzarsi questa trasformazione». La scrittura, confessa, gli ha insegnato «ad abbassare le difese e ad assorbire tutto quello che il mondo mi può dare, il bello e il brutto e anche la frustrazione. La scrittura obbliga a non restare sulla difensiva, a esporsi alla realtà esterna, anche alla guerra». Ma Grossman, tutte queste protezioni le rifiuta: «Siamo intenti a mettere su questi muri, queste difese tra noi e il mondo e nel percorso ci perdiamo tanta vita». Guardando al futuro, un futuro con cui anche gli scrittori devono confrontarsi con l’intelligenza artificiale, Grossman ammette di non avere ancora risposte ma qualche timore sì: «Non abbiamo ancora le parole per descrivere cosa succederà e questo ci fa ancora più paura. Sicuramente c’è anche il rischio che l’essere umano perda un po’ la sua indipendenza». E poiché «tante cose accadono in parallelo», il pensiero dell’autore corre a Trump «al modo in cui concepisce il mondo ma anche il modo in cui lui sta nel mondo, parla e si comporta, come diffonde idee e notizie false». Dice che il presidente Usa «ha creato un’altra realtà e noi siamo cioè intrappolati in Trump, in questo mondo trumpiano, che credo sia collegato anche a quello che sta succedendo sul fronte tecnologico». Lo sguardo, a 71 anni, è ancora quello che ricorda di aver sempre avuto da bambino: «curioso, interessato, assetato di sapere». Il linguaggio del corpo, invece, è quello di un uomo maturo, pacato, riflessivo. Non è così quando lavora: «Scrivo muovendomi sempre, in cerchio… Mia moglie si lamenta perché lascio i segni sul tappeto», scherza. Poi spiega: «Ho la sensazione che il movimento mi consenta di vedere le cose da diversi punti di vista, di cogliere le diverse prospettive senza rimanere bloccato in una situazione. Questa libertà la trovo soltanto quando riesco a muovermi».

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