Intervista a Hadar Sharvit: «Così sono scampata all’inferno del 7 ottobre»
Alle 6 e 29 dell’alba del 7 ottobre 2023, la musica a Re’im si è fermata. «Sono saliti sul palco e ci hanno detto di sdraiarci per terra». Con centinaia di altri giovani, Hadar Sharvit era al Nova Music Festival il giorno dell’attentato terroristico di Hamas a Israele, un massacro che solo al Nova, in poche ore, è costato la vita a 378 persone, e a più di 1.200 nel Paese. Nata 29 anni fa, Sharvit insegna matematica in un liceo e vuole tenere viva la memoria di quel giorno. Ieri era a Genova, ospite di Angelo Vaccarezza, consigliere regionale di Forza Italia e presidente onorario dell’associazione Italia-Israele di Savona. In serata, al teatro Gassmann di Borgio Verezzi, ha assistito alla proiezione del documentario “We Will Dance Again”, il racconto di quel dramma attraverso le immagini riprese dagli smartphone di chi c’era. In mattinata ha visitato il Secolo XIX. «Io stessa lo vedrò per la prima volta. È la storia di quel massacro al Nova e della voglia di combattere l’oscurità, di tornare a ballare e a vivere». Cosa l’aveva portata lì, quel giorno di ottobre di due anni fa? «Era la quarta edizione del Nova in assoluto e la terza volta che ci andavo. È un evento speciale, davvero di alto livello musicale. La musica trance è molto forte in Israele, dove abbiamo tanti produttori, ballerini, e appuntamenti: piccoli party e grandi festival. Abbiamo i migliori deejay. Almeno il 30% dei deejay di trance sono israeliani. La trance, lo dice il nome, ti porta in uno stato mentale diverso, come se stessi facendo meditazione. Per noi, che tutti i giorni dobbiamo confrontarci con il nemico, è una distrazione. Ero andata lì con quindici miei amici. L’avevamo organizzata da tempo. Per miracolo, siamo tutti sopravvissuti». Come ha fatto a mettersi in salvo? «La mia prima reazione non è stata di panico. Siamo abituati a subire attacchi. Re’im è vicina al confine con la Striscia, i lanci di razzi sono abbastanza normali. Ma quando abbiamo capito che non era normale, siamo corsi alle macchine. Dopo poco, però, la polizia ha bloccato il traffico: i terroristi erano entrati in Israele. Era il caos, nessuno capiva più niente». Lei riusciva a orientarsi? «Grazie a mio papà, che mi parlava dal telefono. Ma la situazione precipitava. Arrivavano continui messaggi su Telegram. I terroristi si muovevano liberamente in Israele, con mitragliatrici, ammazzando civili, proprio vicino all’area del Nova. Eppure continuavo a pensare che tutto sarebbe finito in un’ora. Siamo abituati ad avere a che fare con attentati ogni giorno. Abbiamo fiducia nell’esercito». Quando ha capito che non sarebbe andata così? «Quando la polizia ha detto che non poteva aiutarci, perché era impegnata a combattere i terroristi. Mio padre, che mi informava su tutto, mi ha detto di scappare. Siamo usciti dalla macchina e abbiamo cominciato a correre. Mi sono nascosta in un frutteto. Ho visto e sentito ogni cosa. Razzi che cadevano al suolo, e altri razzi più piccoli sparati dai droni. Ho sentito urlare “ammazzate gli ebrei” e ho visto corpi cadere. Ho sentito i kalashnikov e le urla degli stupri. Ho visto gente morire nel peggiore dei modi. Tutto vicino a me. Aver fatto due anni di servizio militare, anche se ero solo nel reparto istruzione, mi è servito. Sapevo riconoscere gli spari. Loro sparano con le mitragliatrici, noi mai. E quando mi sono nascosta tra gli alberi, sapevo muovermi nella natura». Israele è più debole da quel giorno? «No. Israele è il più importante Paese del Medio Oriente. È in prima linea nella lotta al terrorismo. Conosce la realtà degli Stati che, dietro le quinte, finanziano le organizzazioni terroristiche. Dobbiamo raccontarlo». È la missione che si è data anche lei? «Trascorro parte del mio tempo in Europa e nel mondo a raccontare come siamo sopravvissuti, a condividere quello che è successo e a cercare di spiegare, agli altri e a me stessa, come possiamo uscire da un trauma. Abbiamo conosciuto l’odio, siamo vivi, dobbiamo reagire con amore. E dobbiamo raccontare la verità su cosa sta accadendo». In Medio Oriente? «Nel mondo. Il terrorismo agisce anche a un livello inconscio. Trova uno strumento nei social media, che riducono la questione israelo-palestinese a una questione di male contro il bene, diffondendo l’idea che per il bene dell’umanità bisogna combattere Israele». Ma come giudica la reazione di Israele al 7 ottobre, con decine di migliaia di morti? «Cosa deve fare una madre a cui violentano e uccidono la figlia? Un ragazzo a cui massacrano i fratelli? Abbiamo tecnologie che ci proteggono dai loro razzi. Ma loro nascondono le armi nelle scuole e negli ospedali. Organizzano attentati nei quartieri più popolosi, così che la gente non possa scappare. Non dimentichiamolo. Conosco molti palestinesi, vivo accanto a loro. Molti sono più fedeli alla bandiera d’Israele che a quella della Palestina. Molti sono integrati nella nostra società, sono medici, professionisti. Noi aiutiamo i bambini di Ga2a. Li curiamo nei nostri ospedali. Diamo a loro e alle loro famiglie l’elettricità. Loro prendono il denaro e lo usano per comprare armi. E usano i civili come scudi umani». Ritiene che la soluzione dei due Stati sia possibile? «Preferirei non rispondere». Ha fiducia in un futuro migliore? «Per forza. Un mese dopo l’attentato, ero già tornata a insegnare a scuola. Avevo una classe di tredicenni. Non potevo abbandonarli. Sentivo di doverli educare alla compassione, al rispetto degli altri e a fare il possibile per migliorare la società. Non voglio che crescano nella rabbia e nell’odio. Il contrario di quello che accade a Ga2a, dove i libri di scuola insegnano a odiarci. Anche in Europa, e nel mondo, l’antisemitismo sta crescendo. A Berlino una donna, dopo una vita vissuta in Germania, mi ha detto che non si sente più sicura. Io porto al collo questa stella di David, e non è una cosa ovvia. Immagini se un cristiano avesse paura di indossare un crocifisso».