Intervista a Yossi Beilin e Samieh AI Abed – “Trump non è certo uno statista ma può essere l’uomo della pace”

L’intervista mette a confronto Yossi Beilin e Samieh Al Abed, dando spazio a una visione che distingue chiaramente Hamas dal popolo palestinese. L’approccio è dialogante e meno ideologico di altre testate, ma resta sospeso in diversi passaggi, con analisi talvolta più desiderate che supportate da dati reali. Utile, ma non completamente solido.

Sono arrivati a Roma insieme, Yossi Beilin e Samieh Al Abed, ex negoziatori di Oslo e Camp David ed ex ministri rispettivamente di Israele e dell’Autorità nazionale palestinese (Anp), per ribadire che la pace tra israeliani e palestinesi non è una causa persa. Hanno accettato l’invito di Sinistra per Israele a confrontarsi in un dibattito pubblico (oggi alle 16.30 all’Hotel Quirinale a Roma): una scelta non scontata negli ultimi due anni. D’accordo sui punti cruciali – il ritorno dell’Anp a Gaza e l’errore strategico d’Israele nel rafforzare Hamas – parlano tra loro e con La Stampa con la massima franchezza. È quando si affrontano i temi della prospettiva di una democrazia palestinese e del governo tecnocratico che il Piano Trump instaurerà a Gaza che la sintonia si incrina: Beilin auspica già nell’immediato un percorso politico, Al Abed vede di buon occhio professionisti che rimettano in piedi le macerie, ma dice che ci vorrà tempo. Mentre i due ex funzionari sono a Roma, si è conclusa la visita di Mohammed bin Salman (Mbs) a Washington. La circostanza che li ha portati a Roma è anche un omaggio a Yitzhak Rabin, 30 anni dopo il suo assassinio. La prima domanda sfiora, consapevolmente, l’irriverenza. È possibile intravvedere qualche somiglianza tra il pragmatismo di Rabin e quello di Trump? Yossi Beilin: «Dio non voglia, non hanno nulla in comune! Trump sarà anche intelligente e un uomo d’affari di successo. Ed è coraggioso, non si può negare. E se porterà la pace tra me e Samieh, gli sarò persino grato. Ma quel teatrino con Mbs, miliardi sventolati in diretta… mai vista una cosa del genere. Un tipo di leadership che non apprezzerò mai. Eppure, va riconosciuto, al Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha fatto passare la risoluzione che era cruciale per i Paesi arabi: senza il timbro delle Nazioni Unite non avrebbero mosso un dito sulla ricostruzione di Gaza. Onestamente pensavo fosse una causa persa,impossibile ottenere l’astensione di Cina e Russia. Invece Trump mi ha sorpreso. È stato un vero miracolo politico. Non so come ci sia riuscito. Chapeau». Samieh Al Abed: «Per noi è chiaro: i sauditi vogliono davvero uno Stato di Palestina e ce l’hanno ripetuto senza ambiguità. Mbs lo ha detto ad Abu Mazen: «Niente normalizzazione senza due Stati». Credete che la tradizione dell’“ambiguità costruttiva”del piano Trump – molti buoni propositi e pochi dettagli concreti – sia la strada giusta? YB: «L’ambiguità può aiutare a chiudere un accordo, ma poi presenta il conto: interpretazioni opposte, fraintendimenti, gelo. Vince nel breve termine ma rischia di fallire nel lungo. Con gli Accordi di Oslo, il mondo vide la stretta di mano tra Rabin e Arafat sotto la regia di Clinton e credette che fosse la pace. In realtà il divario fra le aspettative e i fatti generò frustrazione in entrambe le parti. Oggi Trump parla di “pace dopo 3000 anni”: è esattamente il tipo di illusione da cui dovremmo guardarci». SA: «Sì, il piano ha lacune, e per una pace vera servirà anche una certa dose di polso fermo. Palestinesi e israeliani devono rivedere insieme ciò che manca e colmare i vuoti, altrimenti sarà un accordo destinato a durare quanto un cambio di amministrazione a Washington». Siete d’accordo con l’idea del governo tecnico per due anni? SA: «Un piano per Ga2a noi lo abbiamo già, c’è unavisione fino al 2050, per la Striscia e per la Cisgiordania, su cui professionisti palestinesi lavorano da anni, assieme alle nostre Ong e alle agenzie Onu. Siamo già sul terreno. Non ci servono pianicolossalicalatidall’esterno. Ma due anni non bastano: prima della ricostruzione servono rifugi, la rimozione delle macerie, la possibilità di spostarsi. Gaza è un cantiere immenso e senza un sostegno internazionale massiccio non ci sarà ripresa possibile». YB:«Non credo nelle tecnocrazie, detesto anche solo l’idea. In democrazia servono governi politici perché dietro ogni “tecnico” c’è un’idea, un’agenda, magari nascosta. Un governo deve decidere su guerra, pace, rapporti con Israele e con gli arabi: non puoi farlo con persone che si dichiarano neutre. E a volte scopri che quegli stessi “professionisti” sono estremisti che non hanno mai rivelato le proprie opinioni.Per questo i governi tecnocratici mi fanno paura: non sai mai chi hai davanti». È realistico pensare a una democrazia palestinese accanto a Israele? SA: «Con Gaza in macerie, un’Anp indebolita e una generazione giovane furiosa per ciò che è accaduto, andare alle urne sarebbe irreale. Prima l’Anp deve tornare a Gaza e dimostrare di poter migliorare la vita delle persone.Solo allora si potrà parlare di elezioni vere. Ora serve tempo per riprendersi e un segnale concreto di futuro». YB: «Prima serve uno Stato, poi aiuteremo i palestinesi a renderlo democratico. E non possiamo ignorare che fino a oggi, nonostante la Primavera araba, non c’è un Paese arabo che sia democratico».

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