Negli oliveti di Taybeh si raccoglie sotto scorta. E il villaggio si svuota

L a statua del Cristo ad annunciare il villaggio, in mezzo al piccolo crocevia. La stazione della polizia, aperta e disabitata, e poi le strade vuote della domenica e della paura. Taybeh è l’ultimo paese interamente cristiano della Cisgiordania, arroccato a 900 metri a osservare le colline che discendono fino a Gerico e il deserto. Il 14 luglio le strade pullulavano di automobili, una minuta schiera di abitanti e fedeli seguiva i rappresentanti delle confessioni cristiane, arrivati da Gerusalemme a portare solidarietà e protezione. Il giorno prima i coloni israeliani avevano dato fuoco alle sterpaglie che sul limitare del villaggio circondano l’antichissimo cimitero, salvato solo grazie all’intervento tempestivo della popolazione. «Ogni giorno che passa appare sempre più chiaro che non esiste legge, la legge è il potere», aveva dichiarato durante la conferenza stampa il cardinale Pierbattista Pizzaballa, Patriarca latino di Gerusalemme, chiamato insieme al Patriarca ortodosso Teophilus III a riassumere il sentimento delle Chiese. Cinque giorni dopo sarebbe stato l’ambasciatore americano in Israele, Mike Huckabee, a condannare le continue vessazioni della «gioventù delle colline», le bande del sionismo messianico che imperversano in tutta la Cisgiordania con la passiva connivenza di esercito, polizia, sistema giudiziario e governo. Poi il silenzio mediatico, quattro mesi di angosciata normalità, e la settimana scorsa l’ultimo attacco. Una macchina data alle fiamme, la stazione di benzina devastata e depredata, le vetrine dei negozi sfondate. «Dopo le visite istituzionali si sono tranquillizzati un po’, poi tutto è ripreso come prima. Ogni giorno attraversano il villaggio con le loro automobili, nell’ultimo mese anche il centro, cosa che non avevano mai fatto. Vengono per provocare una reazione che sapientemente non arriva», racconta Sanad Sahelia, direttore della piattaforma mediatica Nabd el-Haya, i cui uffici sono ospitati nel grande plesso della chiesa del Santo Redentore. Un collaudato e rapido sistema di informazione allerta gli abitanti sul telefono. Le strade si svuotano, la polizia palestinese si chiude nella piccola stazione. L’Autorità palestinese qui come altrove è un pavido miraggio. Nell’ultimo mese quasi nessuno nei terreni circostanti ha potuto raccogliere le olive. Solo qualche agricoltore, scortato il venerdì da una staffetta di dieci delegazioni provenienti da altrettante ambasciate, è riuscito a rinnovare l’antico rito identitario, pur nella brevità simbolica della raccolta. Centinaia di migliaia di euro perduti. L’economia soffre, in particolare da quando dopo il 7 ottobre il governo israeliano ha imposto l’interruzione di tutti i contratti dei palestinesi. Un terzo dei lavoratori a Taybeh ha perso il posto. Ieri la conferma ufficiale è arrivata dall’Onu, l’economia dei Territori Palestinesi occupati è precipitata «nella peggiore recessione mai registrata». Il nuovo rapporto dell’Unactad, la Conferenza per il commercio e lo sviluppo, colloca quella palestinese fra le 10 peggiori crisi sperimentate nel mondo dal 1960. Il Pil è tornato ai livelli del 2010, il reddito pro capite a quelli 2003. A Ga2a è nell’abisso. Il calo cumulato dal 2023 è dell’87%. Ieri Hamas e la Jihad islamica hanno restituito uno dei tre corpi degli ostaggi ancora sepolti sotto le rovine della Striscia, dove la tregua regge nonostante gli oltre 330 palestinesi uccisi da Israele. In Cisgiordania l’assedio dei coloni, le ronde dell’esercito che entra, perquisisce e interroga senza ragione, gli asfissianti checkpoint aperti e chiusi secondo strategico capriccio, la miseria progressiva. Chi può parte, per non tornare. Nel 1967, prima che con la Guerra dei Sei Giorni Israele si appropriasse della Cisgiordania, i cristiani a Taybeh erano 8.000. Oggi sono 1.300. Dieci famiglie sono partite dal 7 ottobre a oggi, quasi il 5% della popolazione. Resistere significa battersi per restare, restare significa lavorare, sentirsi parte del vivo organismo comunitario. Da qui gli sforzi della chiesa del Santo Redentore e del parroco Bashar Fawadleh, sostenuti dal Patriarcato latino: 100 lavori temporanei, per sei o nove mesi, la costruzione di abitazioni condivise, l’acquisto di 15 appartamenti, la cura dell’accademia di musica, di ballo, della squadra di calcio e della stazione radio, il laboratorio di ceramica che dà lavoro a 10 ragazze e ha venduto 120.000 pezzi in tutto il mondo, i minimi ma caparbi festeggiamenti in programma per Natale. «Sono circa 38.000 i cristiani in Palestina. Se la situazione non migliora fra vent’anni non ne rimarrà nemmeno uno», afferma Sanad Sahelia. Taybeh per tutti i cristiani di Terra Santa, fioca, ostinata luce su ogni oppressione e solitudine di Palestina.

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