“Non abbiamo paura”. Viaggio nella comunità ebraica di Monteverde

“Atto ignobile. C’è preoccupazione, ma non abbiamo paura. Questo clima lo affrontiamo con dignità e resilienza”. La comunità ebraica di Monteverde fa i conti dopo l’ultimo atto vandalico nei confronti della sinagoga di quartiere avvenuto qualche giorno fa. In seguito a una manifestazione pro Pal, alcuni vandali hanno imbrattato la targa dedicata a Michael Stefano Gaj Tachè, il bambino di due anni vittima del terrorismo palestinese e morto il 9 ottobre 1982. L’episodio ha avuto la condanna di molti esponenti politici e la comunità ha ricevuto il conforto del presidente della Repubblica Sergio Mattarella. “Non c’è paura, c’è preoccupazione”, dice al Foglio, Sofia (il nome come quello delle altre voci di questo articolo è di fantasia), una residente del posto e che fa parte della comunità ebraica. “Lasciare il tempio il sabato mattina e ritrovarsi con un atto vandalico del genere il lunedì è stato uno shock. Si tratta di un’azione che potrei definire quasi terroristica”. Raggiungiamo dunque la sinagoga dov’è accaduto l’episodio. La targa è stata pulita il giorno stesso. Davanti all’edificio però resta ancora una scritta confusa, dove sembra leggersi “Monteverde SS”. Di fianco c’è il simbolo della svastica, che qualcuno ha coperto senza troppo successo. Giriamo per i diversi locali kosher del quartiere, cerchiamo di parlare con i proprietari per capire cos’ha significato quel gesto per loro. Ma gli esercenti sono spaventati: “Non dico niente, sei un giornalista, lo leggi anche tu quello che scrivono di noi certe persone”. “A Monteverde non sembrano essersi resi conto di quello che è successo”, dice al Foglio lo scrittore Fulvio Abbate, che qui vive e conosce il quartiere come le sue tasche. “Mi aspettavo più senso di comunità. Vorrei che ci fosse. Ma è difficile, anche perché Monteverde non ha una piazza. Può sembrare banale, ma è un ostacolo. Nulla giustifica questo gesto inaccettabile. Ritengo provenga da una subcultura antagonista che paragono al puro cascame”, aggiunge. La questione, precisa, è molto più ampia: “Da anni ormai, per i motivi che si sanno, quella sinagoga è presidiata. Ciò che hanno fatto quelle teste di cavolo, perché altro non si può dire, è da mentecatti”. Ma nel quartiere intanto la comunità reagisce: “Non ci siamo fatti abbattere, come al solito”, raccontano. “In risposta abbiamo organizzato una serata di studio in memoria del Gaj Tachè. Si è tenuta ieri (due giorni fa per chi legge, ndr). Abbiamo studiato la Torah”. Restano comunque la rabbia, la delusione e l’amarezza. “Vivo qui da sempre”, ci racconta Emma, una signora ebrea che vive a Monteverde da anni. “Oggi ho il vicino di casa che ha la bandiera palestinese sul balcone. Il che è strano. E non ci sarebbe niente di male se in quel simbolo, spesso e volentieri, non ci fosse accanto la delegittimazione di quello che è lo stato di Israele”. Episodi del genere invocano ricordi lontani, che in realtà non lo sono così tanto: “Torna la sensazione di sentirsi di nuovo stranieri in casa propria. Non possiamo permettercelo di nuovo. È troppo fresca la memoria del ’38”. La solidarietà del governo e, soprattutto, del Quirinale è stata apprezzata dai residenti del quartiere. Ma manca una vera iniziativa collettiva di zona. Soprattutto in una città come Roma, dove il quartiere non è solo il luogo di residenza, ma spesso molto di più. “Sono speranzosa, magari in futuro succederà”, ci racconta Letizia. “Ma per il momento la risposta è debole. Si vede anche nei gruppi Facebook: c’è un doppio standard che per altre situazioni internazionali non si è mai visto”. “C’è miopia politica”, ci dice di nuovo Fulvio Abbate. “Questi movimenti pro-Pal cercano nemici a cui additare tutti i mali del mondo. Ma le cose sono spesso più complesse”. Matteo, anche lui ebreo di Monteverde, racconta: “Fatti del genere sono preoccupanti: oggi sembra sia diventato
impossibile sostenere le proprie cause senza commettere atti violenti. Le comunità ebraiche dovrebbero essere interlocutori, oggi invece sono puri bersagli politici”. Ci racconta come Monteverde un tempo era proprio l’esempio di questo concetto: “Il nostro quartiere è stato sempre un luogo di aggregazione, a partire dalle scuole. Diverse realtà hanno sempre convissuto in pace, in un confronto democratico. Questo gesto cancella tutto il lavoro fatto. Non pensavo sarebbe mai successo qui. Ma andiamo avanti”.

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