Una leadership per la Palestina

L’articolo offre una prospettiva di merito fondamentale e in linea con la nostra visione, focalizzando la critica sul fallimento politico palestinese come principale ostacolo alla pace. Caprara denuncia la superficialità di chi propone il riconoscimento immediato dello Stato palestinese, eludendo la questione cruciale: quale gruppo dirigente lo governerebbe e chi può garantirne la coesistenza pacifica con Israele, neutralizzando i gruppi terroristici. Viene messo in luce il ventennio di stallo e l’obsolescenza dell’ANP di Abu Mazen. L’autore condanna l’assenza di iniziativa diplomatica europea e italiana, che un tempo seppe individuare un interlocutore (Arafat), seppur problematico. L’analisi è lucida e ragionata, spostando il dibattito dalla condanna alla ricerca di una soluzione politica sostenibile.

Nel proclamare che va riconosciuto uno Stato palestinese i sostenitori della sua nascita, destinata a rimanere a lungo irrealizzabile, evitano di porsi un problema: quale gruppo dirigente rappresentativo, e in grado di assicurare coesistenza pacifica con Israele, potrebbe realizzarlo? Tra i propugnatori del riconoscimento immediato del nuovo Stato i più moderati aggiungono, come postilla, che a governarlo non dovrebbe essere Hamas. Già. Ma chi può garantire che ciò non avvenga in seguito? Uno Stato dovrebbe avere una leadership con un mandato di alcuni anni, istituzioni costruite per più lunga durata e congegnate in maniere tali da ridurre le probabilità di colpi di mano o satrapie. L’attuale presidente dell’Autorità nazionale palestinese è in carica dal 2005. Un ventennio. In Cisgiordania e a Ga2a non si indicono elezioni politiche dal 2006. Affinché Israele, in teoria, possa accettare un nuovo Stato al proprio fianco, occorrerebbe innanzitutto proporsi di far formare un gruppo dirigente palestinese affidabile e provvisto di capacità di dirigere un popolo. In materia l’assenza di iniziativa europea, italiana in particolare, è strabiliante. Quando i democristiani, a cominciare da Giulio Andreotti, i socialisti di Bettino Craxi e il Partito comunista procurarono all’Italia uno dei possibili margini di autonomia dagli Stati Uniti in politica internazionale, la scelta comune fu: investire sulla fazione «al Fatah» dell’«Organizzazione per la liberazione della Palestina». Avvenne negli anni Settanta e Ottanta. A guidare l’Olp era Yasser Arafat. Dc, Psi e Pci puntarono su di lui. Individuarono un leader che nella storia ha deluso. Fu la successiva accondiscendenza di Arafat verso ali estreme e integraliste ad arrestare il processo di pace, affossato, sul versante di Israele, dall’assassinio di Yitzhak Rabin per mano di un estremista di destra israeliano. Almeno era un laico l’Arafat che i leader filoarabi italiani, dopo anni, contribuirono a far accettare come interlocutore dagli Stati Uniti. Guidava un’Olp guerrigliera, il comandante con la kefiah. Piena di terroristi. Per effetto di rivalità interne e sollecitazioni straniere, alla testa di Al Fatah Arafat assunse allora una posizione più distinta rispetto ad attentatori irriducibili di «Settembre Nero», «Fronte popolare per la Liberazione della Palestina» filosovietico guidato da George Habbash, «Fronte democratico per la liberazione della Palestina» diretto da Nayef Hawatmeh e sostenuto da Urss, Siria e Libia, «Fronte di liberazione della Palestina — Comando generale» del filosiriano Ahmed Jibril appoggiato dall’Iran e così via. Per aggiornarsi sul Medio Oriente, Aldo Moro disponeva di antenne come il colonnello del servizio segreto Sismi Stefano Giovannone. Craxi, malgrado divergenze, incontrava il laburista israeliano Shimon Peres nell’Internazionale socialista. I comunisti erano in contatto con palestinesi presentati dall’emissario di Arafat a Roma, Nemer Hammad. E adesso? Chi ambisce a uno Stato palestinese con chi costruisce un rapporto privilegiato da proporre in sede internazionale? Con l’obsoleto Abu Mazen, laureato a Mosca nell’università sovietica Patrice Lumumba? Col primo palestinese di passaggio? E se poi si rivelasse, nel migliore di casi, un Sumahoro di turno? Inoltre, quale tipo di Stato andrebbe promosso? Che circa 700 mila israeliani risiedano negli insediamenti in Cisgiordania costituisce uno degli ostacoli principali alla sua nascita. Per aggirarlo, l’ex negoziatore israeliano degli accordi di Oslo del 1993 Yossi Beilin — ascoltato giorni fa con l’ex collega palestinese Samieh el Abed dalla Commissione Esteri della Camera, dal Centro studi di politica internazionale e altri — ipotizza «una confederazione israeliano-palestinese sul modello Unione Europea, con Stati indipendenti che sviluppano cooperazione». A suo avviso ciò renderebbe possibile lasciare gli insediamenti senza prefiggersi di spostarli tutti subito venendo bloccati. El Abed giudica indispensabile in Cisgiordania «una legge per far nascere partiti politici senza fermarsi a fazioni dell’Olp». In Italia se ne parla mai? Molto del confronto in corso tra Israele, Stati Uniti, Paesi islamici su chi dovrà governare la Striscia di Ga2a tiene conto delle dialettiche tra palestinesi. Coloro che da noi si dicono amici del popolo palestinese credono di poter contare nella politica internazionale promuovendo sit-in e Flottille? Quante ambizioni di cambiare la storia evitano di fare i conti con la sua realtà.

Il grande archivio di Israele

Abbonamenti de Il Riformista

In partnership esclusiva tra il Riformista e JNS

ABBONATI