Virtus-Maccabi, non è basket ma propaganda di Netanyahu

Il commento politicizza in modo forzato una partita di basket, riducendola a un presunto strumento di propaganda israeliana. Nessun dato, nessun contesto, nessuna analisi: solo un frame ideologico che ignora completamente la realtà di un club storico come il Maccabi e il contesto post-7 ottobre. È l’articolo più debole e meno aderente ai fatti.

Oggi Virtus-Maccabi non è basket, ma propaganda di Netanyahu Virtus-Maccabi, non è basket ma propaganda di Netanyahu. Quando lo sport smette di essere la lingua dei popoli e si trasforma in uno strumento di “sportwashing”, diventa necessario rimettere in discussione gli slogan accumulati nei decenni. Le istituzioni politiche hanno a lungo ripetuto una frase rassicurante. Bologna ricorda la partita di Amsterdam: aggressioni razziste e ai simboli palestinesi; e il coro: «A Gaza non ci sono scuole perché non ci sono più bambini». «Lo sport unisce i popoli». Ma dietro questo principio apparentemente innocuo si nasconde un meccanismo molto più complesso: la capacità dello sport di occultare guerre, violazioni e persino crimini di massa, presentandosi come una vetrina scintillante che non riflette la realtà fuori dagli stadi. DALLO SCOPPIO della guerra a Gaza, Israele ha affrontato un’ondata crescente di boicottaggi sportivi in tutto il mondo, soprattutto contro atleti direttamente legati alle operazioni militari o che le hanno difese pubblicamente. Tuttavia, questo rifiuto popolare non si è tradotto in una presa di posizione istituzionale chiara. Per “ripulire l’immagine attraverso lo sport” a volte basta rompere il ciclo del boicottaggio per creare la sensazione che tutto sia tornato alla normalità. La dinamica è apparsa chiaramente in Ungheria, il primo Paese europeo ad aprire nuovamente le porte alle squadre israeliane. Neppure l’Italia è rimasta estranea a questa dinamica. A Udine, due mesi fa, la città ha ospitato una partita di qualificazione ai Mondiali contro la nazionale israeliana, nonostante le ampie proteste che consideravano la presenza della squadra come una forma di normalizzazione inaccettabile in un momento in cui crescono le accuse di crimini gravi. Oggi, Bologna – città che da decenni si presenta come cuore della sinistra italiana e simbolo storico dell’antifascismo si trova di fronte a un bivio reale: può una città con questo patrimonio ospitare la squadra del Maccabi Tel Aviv in un evento che, in apparenza, dovrebbe essere soltanto sportivo? «TUTTI IN PIAZZA». Questo è stato lo slogan ricorrente a Bologna ogni volta che si sono organizzate manifestazioni in solidarietà con la Palestina. E con l’annuncio della partita del Maccabi, numerosi gruppi civici – dai centri sociali alle associazioni civiche, dai collettivi studenteschi ai partiti locali – hanno lanciato un appello a una grande mobilitazione in Piazza Maggiore oggi 21 novembre. Nel comunicato congiunto, hanno chiesto la sospensione della partita e di ogni forma di cooperazione sportiva con Israele, sostenendo che la partecipazione della squadra israeliana in una città come Bologna rappresenti una sorta di “legittimazione sportiva” concessa a uno Stato che utilizza lo sport – secondo il testo del comunicato – per ripulire la propria immagine mentre è accusato di crimini gravi a Ga2a. Il comunicato accusa inoltre la Federazione Europea di Basket e altre istituzioni sportive di complicità, per aver trattato la situazione «come se nulla stesse accadendo». UNA DELLE ATTIVISTE – Marina Misaghi, giovane iraniana ormai parte integrante del movimento civico locale – ha criticato la posizione del Comune: «Ritengo che la gestione della vicenda, focalizzata unicamente sulla questione dell’ordine pubblico, sia stata del tutto inadeguata. Lo spostamento della partita non rappresenta in alcun modo una presa di posizione radicale, dal momento che di fatto permette comunque alla squadra israeliana di scendere in campo». L’amministrazione si è preoccupata, continua, «più di monitorare vetrine e cantieri del tram che di assumere una posizione politica chiara a due anni dal genocidio, suggerendo di rinviare, spostare o trasferire l’incontro. Il ministero ha addirittura minacciato un uso spropositato della forza. L’unico modo reale per evitare scontri non è reprimere il dissenso con la violenza, ma cancellare il match». Le preoccupazioni non nascono dal nulla. La città ricorda cosa è accaduto ad Amsterdam durante una precedente partita del Maccabi: scontri, aggressioni, slogan razzisti e insulti ai simboli palestinesi, tra cui il coro scioccante: «A Gaza non ci sono scuole perché non ci sono più bambini». La stampa israeliana, inoltre, ha riferito della presenza di agenti del Mossad che accompagnerebbero le squadre israeliane all’estero «per motivi di sicurezza». Sebbene non vi sia alcuna conferma ufficiale riguardo alla possibilità che ciò accada a Bologna, la semplice ipotesi ha sollevato un interrogativo. SIN DAGLI ANNI Trenta, lo sport ha dimostrato di poter servire il potere. Alle Olimpiadi di Berlino del 1936, il regime nazista tentò di presentarsi come moderno e tollerante, mentre la macchina della persecuzione era pienamente operativa dietro le quinte. Nei decenni successivi, la stessa dinamica si è ripetuta in forme diverse: i Mondiali del 2022 in Qatar sono diventati il simbolo di un modello economico fondato sullo sfruttamento dei lavoratori migranti, mentre la Formula 1 in Bahrein è servita a oscurare un contesto politico molto più duro. L’Arabia Saudita, dopo l’assassinio brutale di Jamal Khashoggi, ha investito miliardi negli eventi sportivi per ricostruire la propria immagine internazionale. ADESSO BOLOGNA rischia di scivolare nella stessa logica: la partita di oggi può sembrare un evento sportivo ordinario, ma porta con sé un peso politico ed etico impossibile da ignorare in una città che ha definito la propria identità sulla base della solidarietà, della memoria e del rifiuto di ogni forma di fascismo. Per una parte consistente dei suoi abitanti, la questione non riguarda il risultato di una partita di basket, ma il rischio che il nome della città venga usato – contro la sua volontà come parte di una strategia di propaganda. Bologna non vuole essere coinvolta in un processo che fornisce una copertura simbolica a uno Stato accusato di gravi crimini contro i civili. Né vuole che i suoi spazi pubblici vengano utilizzati come sfondo per normalizzare una situazione politica difficilmente separabile dalle immagini quotidiane della distruzione a Gaza.

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