Per Israele
Da Kerem Shalom a Betlemme: viaggio tra Israele, Gaza e Cisgiordania
di HaKol - 7 Ottobre 2025 alle 20:00
Ho messo piede a Kerem Shalom, il valico a sud di Gaza che rappresenta la porta principale per gli aiuti e le merci dirette nella Striscia, sia da Israele che dall’Egitto. È un posto che vibra di attività e tensione: camion che vanno e vengono. Ieri, mi dicono, sia stata una giornata intensa: circa 7.000 palestinesi hanno lasciato Gaza in un solo giorno, per cure mediche o motivi umanitari.
Da quando è iniziata la guerra, centinaia di migliaia di persone hanno ricevuto assistenza ospedaliera o sono state evacuate all’estero grazie a Israele. Non è una cosa da poco, soprattutto se si considera le difficoltà logistiche e che molti Paesi arabi, come l’Egitto, sono riluttanti ad aprire le porte ai palestinesi, temendo infiltrazioni terroristiche. Chi vuole entrare o uscire, giustamente, deve prima passare i rigidi controlli di sicurezza israeliani. La vera sfida, però, è trovare un equilibrio: far arrivare più aiuti possibile senza abbassare la guardia, per evitare che si ripetano tragedie come quella del 7 ottobre, per questo, come accadeva anche prima i camion (circa 300 al giorno) passano sotto degli scanner che verificano non vi siano all’interno armi o merce utile ai fini bellici. Ho visto con i miei occhi quanto Israele si stia impegnando per mantenere aperto il flusso di aiuti. Ma una volta dentro Gaza, la situazione si complica. Persino l’ONU ha dovuto sospendere le distribuzioni per problemi logistici e per il timore di attacchi durante il trasporto che può avvenire nelle zone interne della Striscia e Gaza city solo con il consenso di Hamas.
La cosa più sconcertante? Circa l’80% degli aiuti finisce nelle mani di Hamas, che li vende o peggio li usa per ricattare la popolazione e spingerla a sostenere le loro azioni. È una realtà che raramente si comprende leggendo i giornali occidentali, anche perché le stesse ONG non possono che dare le colpa a Israele se vogliono continuare ad operare a Gaza. Nel sud di Gaza la realtà è però sotto gli occhi di tutti, visto che dopo il confine sono accatastate sotto il sole centinaia di tonnellate di cibo che Onu e Ong non hanno mai prelevato e distribuito. Solo la Gaza Humanitarian Foundation é riuscita con molte difficoltà e intoppi a creare nella Striscia dei punti di distribuzione che consegnano direttamente i pacchi alle famiglie, senza intermediazione, ma anche questo sistema funziona a giorni alterni.
La distruzione a Gaza è visibile persino a kilometri di distanza, in quanto proprio gli edifici civili più alti, utilizzati da Hamas per lanciare missili o controllare il territorio sono stati distrutti nei bombardamenti purtroppo necessari. Le vittime accidentali sono tante, pur essendo almeno 10 volte inferiori a quelle generate dalla guerra in corso in Sudan e di cui nessuno parla. Soprattutto sono vittime volute da Hamas, affinché possa aumentare il dato dei morti e di conseguenza l’aggressività della comunità internazionale contro Israele: esistono infatti migliaia di intercettazioni che dimostrano che mentre l’IDF invita i civili prima dei bombardamenti ad abbandonare gli edifici che verranno colpiti, Hamas interviene in senso contrario, con telefonate per comunicare che si è trattato di un falso allarme o nei casi peggiori minacciando le persone di morte qualora abbandonino le loro posizioni. A Gaza, Hamas ha usato scuole e ospedali come basi operative, scavato 600 km di tunnel, mai aperti ai civili quali rifugi durante i bombardamenti, poiché ha sempre sfruttato i civili stessi come scudi umani, trasformato gli aiuti umanitari in strumenti di coercizione o utilizzato il numero delle vittime per la propaganda. Sarebbe bastato aprire i tunnel per salvare decine di migliaia di persone.
L’attacco di Hamas del 7 ottobre ha lasciato un segno profondo nella società, specie per la brutalità con cui é stato compiuto. Gli israeliani, di ogni origine, sono convinti che con i terroristi non si possa più trattare. Negli ultimi due anni, decine di migliaia di missili lanciati da Hamas e dai proxy iraniani avrebbero potuto distruggere Israele, se non fosse stato per la sua tecnologia e preparazione militare. È una situazione che rende impossibile immaginare una convivenza pacifica e la fine della guerra senza l’eliminazione di Hamas. Inoltre i leader di Hamas sanno bene che se accettassero un accordo e liberassero gli ostaggi verrebbero eliminati o smetterebbero di contare in poco tempo. Infatti, nonostante i numerosi tentativi di raggiungere degli accordi, per almeno tre volte quasi portati a compimento, all’ultimo gli jihadisti li hanno sempre boicottati attraverso richieste irricevibili, come testimoniano i mediatori qatarioti ed americani.
Da Kerem Shalom mi sono spostato a Betlemme, in Cisgiordania. Entrare in questa città è come fare un tuffo in un mondo diverso. Trent’anni fa, quando Israele ha lasciato l’area, Betlemme era una città a maggioranza cristiana, con l’80% della popolazione che apparteneva a questa comunità. Oggi i cristiani sono il 20%. La città è tranquilla, sotto il controllo dell’Autorità Palestinese, e non si respira l’aria di protesta che si respira in Europa e che ci si potrebbe aspettare. Niente manifestazioni contro Israele o a favore di Gaza, nessuna parola di troppo e tantomeno cartelli o striscioni. Qui la gente sembra avere paura del passato, sembra volere la normalità e teme soltanto il ritorno dei gruppi jihadisti. Molti palestinesi di Betlemme hanno vissuto sia sotto l’amministrazione israeliana che sotto la pressione di gruppi terroristici, e il loro timore più grande è che il caos riprenda il sopravvento. Tant’è che dicono apertamente che preferirebbero l’occupazione israeliana al ritorno dei gruppi radicali. La città sembra sognare un futuro diverso, magari come una sorta di città-stato con ampia autonomia, più che sognare di aderire a un vero Stato palestinese nazionale. Ogni angolo della Cisgiordania ha peculiarità talvolta molto diverse: il potere è frammentato, spesso in mano a famiglie o gruppi locali che, in molti casi, dialogano con Israele per garantire sicurezza a tutti, come fa quasi sempre anche l’ANP e la sua polizia. I cristiani combattono quotidianamente per mantenere la loro identità e vorrebbero che la città della natività divenga un’attrazione per fedeli da tutto il mondo.
Un dato che mi ha colpito: mezzo milione di palestinesi della Cisgiordania lavora ogni giorno in Israele. Sanno bene che la cooperazione tra l’Autorità Palestinese e Israele è l’unico modo per tenere a bada il rischio di movimenti jihadisti al potere. Tra i due milioni di arabi israeliani, poi, la maggior parte vuole continuare a vivere in pace nello Stato ebraico, avendo gli stessi diritti dei concittadini ebrei. Infatti in nessuno dei due gruppi ci sono state proteste significative a favore di Hamas, in Israele o a Ramallah gli arabi sanno bene che contro Hamas non ci sono alternative alla guerra. Inoltre, nel nord d’Israele ci sono i drusi, una comunità araba non musulmana perfettamente integrata. Molti di loro servono nell’esercito, alcuni anche in ruoli di vertice.
Dopo l’intervento di terra la fine della guerra sembra vicina, e con essa la possibilità di una regione più stabile a seguito di tutti i mutamenti avvenuti negli ultimi due anni, molti grazie a Stati Uniti e Israele. La soluzione a due Stati, però, appare sempre più lontana: né l’Egitto né la Giordania vogliono prendersi la responsabilità di Gaza, della Cisgiordania o dei rifugiati. Nessuno sembra credere più possa realizzarsi il miraggio dei due popoli e dei due Stati. Si fa strada, invece, un’idea diversa: la creazione di emirati locali palestinesi confederati o non, guidati da leader autorevoli, che amministrino i territori in pace e in coordinamento con Israele, garantendo sicurezza, rispetto e riconoscimento reciproco. Un modello proposto proprio da un leader palestinese, lo sceicco di Hebron. Un’idea questa che potrebbe trovare il favore anche di alcuni Paesi arabi, senza tornare a un modello tradizionale di Stato nazionale che invece gli stessi palestinesi non hanno mai voluto, per non riconoscere Israele, e che oggi sembra esistere solo nelle teste (o sulle bocche) dei leader occidentali.