La verità come anomalia
Gaza è diventata una “industria della sofferenza”, la fabbrica del dolore che sfama il silenzio del mondo
di Luigi Giliberti - 6 Settembre 2025 alle 21:22
C’è un luogo al mondo dove si contano più telecamere che medici, più osservatori che soluzioni, più commozione che verità. Si chiama Gaza. Da decenni la Striscia è diventata l’epicentro di un’industria della sofferenza senza eguali: 13mila operatori ONU, oltre 80 Ong accreditate, 1.300 giornalisti presenti sul campo. Un’infrastruttura umanitaria e mediatica tra le più imponenti del pianeta. Eppure, in tutto questo tempo, nessuno ha prodotto prove concrete dei tunnel sotto gli ospedali, dei lanci da scuole, dell’arruolamento forzato di minori o dei magazzini pieni di armi nelle strutture civili. Nulla. Solo slogan. Solo narrazioni.
La tragedia c’è, eccome. Ma è raccontata, organizzata, monetizzata. Gaza non è solo una crisi. È una filiera economica, simbolica e ideologica che si alimenta di immagini, dichiarazioni, emergenze croniche. Un ecosistema che macina fondi, visibilità e posizionamenti politici, e che si regge su un patto non scritto: non disturbare il racconto ufficiale.
Il paradosso ONU
L’ONU, teoricamente garante della pace e dei diritti umani, opera a Gaza in modo strutturato da decenni. Ma anziché denunciare lo strapotere di Hamas, ha finito per convivere con esso. I convogli vengono sistematicamente sequestrati. Gli aiuti distribuiti solo tramite i canali autorizzati dal gruppo terroristico. I civili sono costretti a comprare, a caro prezzo, ciò che dovrebbe essere gratuito. E i profitti alimentano direttamente la rete militare di Hamas.
Ogni tentativo di aggirare il sistema – come nel caso della Gaza Humanitarian Foundation, capace di consegnare 90 milioni di pasti in 60 giorni – viene sabotato. I camion restano fermi. Le scorte si deteriorano. E l’ONU? Mentre accusa Israele di bloccare gli aiuti, lascia intatti i meccanismi che rendono Hamas il vero intermediario di ogni briciola di cibo.
Dove sono le prove?
Da ottobre 2023, Gaza è la notizia. Ma dov’è il giornalismo? Dove sono i reportage d’inchiesta, le denunce, le verifiche indipendenti? 1.300 giornalisti, migliaia di ore di immagini, reportage e live da una delle aree più osservate al mondo. Eppure nessuno ha mai filmato un tunnel, una base militare nascosta, un’esecuzione sommaria, una detenzione arbitraria. Nessuno. Mai.
Cosa accadrebbe se 1.300 giornalisti fossero a Raqqa e non documentassero i crimini dell’ISIS? O a Grozny senza menzionare i gulag di Kadyrov? Sarebbero credibili? A Gaza, invece, vale il contrario: più sei allineato alla narrazione, più vieni invitato, citato, promosso. Le contraddizioni vengono ignorate. I silenzi premiati. Il cinismo, mascherato da empatia, è la moneta corrente.
La verità come anomalia
Il punto non è negare il dolore. Ma riconoscere la sua strumentalizzazione sistemica. Gaza è l’unico luogo al mondo dove la sofferenza non è solo vissuta, ma prodotta e gestita come leva politica. I bambini affamati servono – letteralmente – per le telecamere, non per le soluzioni. Le vittime diventano contenuto mediatico, non esseri umani da salvare.
Ogni proposta alternativa viene soffocata. Ogni narrazione diversa censurata. E chi osa raccontare l’altra parte viene accusato di complicità, disumanità, propaganda. In nessun altro conflitto viene tacciato di odio chi denuncia l’uso dei civili come scudi o l’occupazione di ospedali da parte di milizie armate. A Gaza, sì.
Il fallimento morale dell’Occidente
L’Occidente non ha solo finanziato l’apparato. Ha legittimato la bugia. Ha permesso che Hamas diventasse l’unico distributore accettato, il filtro obbligato per qualsiasi operazione umanitaria. Ha chiuso gli occhi quando l’ONU si è fatta complice. Ha applaudito attivisti e reporter che non hanno mai messo in discussione lo schema.
È tempo di dirlo: non è Israele che affama Gaza. È Hamas che ne fa commercio. E chi continua a ignorarlo, chi continua a far finta che il problema sia solo “l’occupazione”, sta tradendo i civili palestinesi più degli stessi droni. Gaza non è una causa. È una trappola ideologica. Una macchina del dolore che vive del proprio disastro. Fermarla significa spaccare il silenzio, sfidare l’ipocrisia e restituire dignità a un popolo prigioniero non di un confine, ma di una narrativa.