Le Ragioni di Israele

Hamas, dalla retorica del terrore al marketing dei martiri. La comunicazione al tempo del conflitto che genera consenso

di HaKol - 23 Ottobre 2025 alle 12:50

Con Al-Qaeda, il terrorismo parlava in arabo, predicava in VHS e terrorizzava con simboli apocalittici. Era una comunicazione verticale, chiusa, ideologica. Poi è arrivata Hamas. E ha cambiato tutto. Non ha abbandonato la violenza, ma ha rivoluzionato il modo di raccontarla. Il passaggio è netto: dalla retorica del terrore al marketing emotivo della vittima resistente. Hamas non attacca più frontalmente l’Occidente: lo seduce, ne assorbe i linguaggi, ne manipola le colpe. Non respinge i valori occidentali – diritti umani, autodeterminazione, anticolonialismo – ma li svuota e li riempie di sé. Così, la comunicazione del conflitto si trasforma in una sofisticata macchina di produzione del consenso.
La grammatica fluida del nuovo jihadismo
A differenza del jihadismo “classico”, Hamas ha costruito una narrazione bifronte. Ai suoi seguaci promette la gloria della resistenza armata; al pubblico occidentale offre l’immagine di un popolo assediato, martoriato, oppresso. È una strategia mimetica, adattiva, che alterna codici religiosi e lessico giuridico con estrema disinvoltura. In arabo, si parla di martiri. In inglese, di apartheid. A Est, il jihad; a Ovest, il diritto internazionale. È una comunicazione situazionale, algoritmica, che sa mutare tono e contenuti in base alla platea. Non si limita a raccontare un conflitto: lo modella emotivamente, manipolando l’attenzione selettiva dell’audience globale.
La bolla digitale e il caso “Mr. Fafo”
Le piattaforme social, che tendono a rinforzare contenuti affini alle convinzioni dell’utente, favoriscono la creazione di bolle informative impermeabili. Il frame “pro-Palestina” domina, e chi ne fa parte tende a vedere un solo lato della realtà. Il resto viene oscurato, ignorato o accusato di complicità. Emblematico il caso di Saleh Aljafarawi, noto come “Mr. Fafo”, influencer palestinese divenuto simbolo mediatico del conflitto. Dopo che fonti locali hanno parlato di una sua uccisione in uno scontro interno tra fazioni palestinesi, i social occidentali lo hanno trasformato istantaneamente in “giornalista ucciso da Israele”. Nessuna verifica, nessun dubbio. Solo narrazione.
La guerra delle immagini oscura la politica
Nel frattempo, a Gaza, Hamas giustizia pubblicamente sospetti collaborazionisti, reprime clan rivali (come i Dughmush a metà ottobre) e gestisce gli aiuti internazionali con logiche clientelari. Ma tutto questo non buca la timeline occidentale. Perché? Perché non corrisponde al frame dominante della “resistenza legittima”. Il problema non è solo morale, ma politico. Quando tutto viene ridotto a immagine, quando ogni crisi è solo emozione da condividere, la complessità sparisce. Non si discutono più soluzioni, negoziati, istituzioni: si parteggia. E Hamas lo sa. Non cerca solo consenso interno: cerca legittimazione globale.
Dal cittadino al simbolo: la vittima come unica verità
La vera forza della strategia comunicativa di Hamas è aver trasformato ogni palestinese in un simbolo, ogni vittima in una prova, ogni dolore in una leva. È un’operazione di estensione del conflitto: dalla guerra sul terreno alla guerra della percezione. Il rischio? Che la questione palestinese venga svuotata di politica, storia, diplomazia. E diventi solo una performance comunicativa, utile a chi detiene il potere, non a chi lo subisce. Hamas non vuole la pace: vuole governare l’immaginario. E nell’era degli algoritmi, spesso, è già un passo avanti.

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