Le Ragioni di Israele

Hamas, il documento con cui Sinwar pianificò l’attacco del 7 ottobre: “Uccidete e filmate con gli smartphone”

di Paolo Crucianelli - 24 Ottobre 2025 alle 14:40

Un documento recuperato dall’esercito israeliano durante le operazioni nella Striscia di Gaza getta una luce sinistra e definitiva sulla pianificazione del massacro del 7 ottobre. Si tratta di un testo manoscritto attribuito a Yahya Sinwar, il leader di Hamas eliminato un anno fa, che rivela nei dettagli la premeditazione, la brutalità e la logica criminale che hanno ispirato l’attacco. Una copia digitalizzata di sei pagine datata 2022, scritta di pugno da Sinwar e ritrovata in un complesso sotterraneo a Khan Younis, utilizzato dai vertici dell’organizzazione. Le parole contenute in quelle righe rappresentano una vera e propria radiografia del male, scientemente pianificato. Non c’è spazio per ambiguità: Sinwar delinea con precisione le fasi dell’incursione, gli obiettivi da colpire, le modalità operative e persino le azioni da filmare per massimizzare l’impatto psicologico.

Secondo le fonti israeliane e il New York Times, il documento dettaglia una strategia di attacco in quattro ondate successive, con mappe operative e obiettivi predefiniti. La convinzione di Sinwar era che l’incursione avrebbe provocato un collasso immediato della difesa israeliana, innescando una sollevazione su più fronti, in particolare in Cisgiordania. Ogni brigata aveva delle direttive precise: quella settentrionale verso la costa, la brigata di Gaza a nord-est, quella di Khan Younis a est, quella di Rafah a sud-est. Tutto doveva essere eseguito con disciplina e rapidità.

Ma ciò che più colpisce nel testo è la componente psicologica: l’esplicita volontà di generare immagini di orrore da diffondere in tempo reale. Sinwar scriveva che “devono emergere immagini che provochino euforia, follia e insurrezione tra il nostro popolo, specialmente in Cisgiordania e a Gerusalemme”, e che contemporaneamente “devono provocare orrore e paura nel nemico”. Le istruzioni sono agghiaccianti: “Schiacciare teste di soldati, sparare a distanza ravvicinata, sgozzare con il coltello, bruciare con il gasolio interi quartieri, filmare e trasmettere le immagini il più rapidamente possibile”. In un altro passaggio si legge l’invito a “organizzare due o tre azioni il cui scopo sia bruciare un intero kibbutz”, con tanto di dettagli su come versare carburante da cisterne e riprendere tutto per la diffusione mediatica.

Il documento, sebbene atroce, non sorprende chi da tempo denuncia la trasformazione di Hamas da movimento politico in macchina disumana del terrore. Sinwar, già definito da molti analisti “il capo di un culto della morte”, concepiva la comunicazione come arma di guerra. Le telecamere e gli smartphone non dovevano servire solo alla propaganda, ma diventare strumenti tattici per amplificare la paura e la rabbia, tanto tra gli israeliani quanto nel mondo arabo.

La scoperta di questo testo conferma quanto Israele ripete da mesi: la brutalità dell’attacco del 7 ottobre non fu una reazione improvvisa, operata da miliziani esaltati e fuori controllo, ma un’operazione pianificata nei minimi dettagli, con un obiettivo preciso, ovvero seminare il terrore come non si era mai visto prima. Non ci fu alcuna spontaneità, non ci fu “resistenza”, ma un progetto lucido di annientamento. E il fatto che Hamas avesse previsto la diffusione globale delle immagini rende evidente come la dimensione mediatica fosse parte integrante del disegno criminale.

Da un punto di vista geopolitico, il ritrovamento arriva in un momento cruciale. Con la tregua in vigore e il negoziato per la pace ancora fragile, il documento rimette tutto in prospettiva. Non si può costruire una pace stabile ignorando la natura di chi ha deliberatamente pianificato un massacro di civili. Chi continua a presentare Hamas come interlocutore politico “necessario” deve ora confrontarsi con l’evidenza che i suoi vertici hanno concepito la violenza come fondamento della loro identità, e la manovalanza l’ha eseguita con evidente soddisfazione.

Molti osservatori internazionali hanno notato come la precisione e la ferocia di queste istruzioni si discostino anche dagli standard terroristici. Non si tratta solo di uccidere: si tratta di produrre terrore come linguaggio politico, di trasformare il dolore in arma, l’immagine in detonatore. È la stessa logica che da anni alimenta il jihadismo globale e che ha trovato in Sinwar la sua espressione più feroce.

L’orrore del 7 ottobre non fu, dunque, un incidente nella storia del conflitto, ma il suo punto di non ritorno. Quelle righe, scritte due anni prima, spiegano più di mille analisi la distanza incolmabile che separa Hamas da qualunque forma di negoziato reale. Mentre Israele discuteva, anche tra le proprie contraddizioni, di confini e di pace, i leader di Hamas pianificavano di inquadrare le fiamme, di filmare l’orrore, di usare il linguaggio della morte. Ecco perché questo documento non è solo una prova giudiziaria. È la testimonianza di una mentalità, di una cultura della distruzione. È anche la risposta a chi, in Europa e altrove, continua a presentare il 7 ottobre come “una reazione”, come la resistenza. No: fu un piano. Un piano, efferato ed esecrabile, di morte. Firmato da Sinwar.

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