Le Ragioni di Israele
I “Giudici per Gaza” che fanno vacillare la terzietà
di Iuri Maria Prado - 24 Settembre 2025 alle 11:29
Entrando in aula, e guardando la bacheca sulla porta del giudice occupata dal comunicato dei “Giuristi per Gaza”, speravo ingenuamente che lo sfregio si sarebbe limitato a quell’affissione. Confidavo che in tribunale – supposta sede di applicazione della legge uguale per tutti, non palestra di agitazione di improbabili manifesti politici – fosse già abbastanza inappropriata la presenza di quell’appello sulla “violazione sistematica e protratta del diritto alla vita e degli altri diritti fondamentali della popolazione civile di Gaza”.
Inutile precisare che per gli estensori di quel proclama – così come per chi ha deciso di imporlo sulla soglia della giustizia amministrata in nome del popolo italiano – non fanno parte delle violazioni rilevanti dei diritti dei palestinesi la tortura e l’assassinio degli avversari politici, la decapitazione degli omosessuali, il reclutamento dei soldati-bambino, l’uso dei civili “come attrezzi”, l’allevamento di intere generazioni indottrinate alla santità del martirio. Ma, appunto, mi illudevo che la faccenda fosse chiusa con l’esibizione dei moniti strabici dei “Giuristi per Gaza”. Perché l’incombere di quel cartello all’entrata della stanza del giudice si sarebbe rivelato di lì a poco l’annuncio perfino moderato di un ben più grave prosieguo. Il giudice, infatti, ha ritenuto non solo di trascrivere nel verbale d’udienza il testo di quell’appello, ma ci ha messo del suo arricchendolo di proprie divagazioni sul “genocidio a Gaza”. E poi lo ha letto in faccia ai presenti.
Avrei potuto interrompere la celebrazione di quel rito fuori da ogni regola, o almeno avrei potuto alzare i tacchi dicendo al giudice che sarei tornato alla fine di quella bizzarra prolusione, che nulla aveva a che fare con la causa (ma se avesse avuto qualcosa a che fare con la causa sarebbe stato anche peggio). Avrei potuto chiedere che fosse messo a verbale il mio disappunto per una gestione tanto arbitraria dell’udienza. Avrei potuto pretendere che il giudice spiegasse perché, a quale titolo, in base a quale norma della legge uguale per tutti egli ritenesse di potersi abbandonare – imponendolo al processo e alle parti – all’esercizio di quell’opinabile ginnastica politica e ideologica. Ma non ho fatto nulla di tutto questo. Perché se l’avessi fatto avrei rischiato di rendermi ostile al giudice: nuovamente con il rischio, anzi con la certezza, di pregiudicare il mio assistito.
La causa, ripeto, non aveva nulla a che fare con questioni in qualsiasi modo connesse alla guerra di Gaza. Né erano parti in causa israeliani o ebrei. Ma le controversie giudiziarie nelle quali entra la vicenda di Gaza ci sono eccome (per esempio quelle per i casi in cui gli ebrei sono molestati e insultati perché “non denunciano il genocidio”). E così ci sono le cause in cui sono parti cittadini israeliani, o cittadini ebrei. Che garanzia di terzietà e imparzialità può dare un giudice che fa proprio e mette a verbale quell’appello in una causa riguardante un israeliano o un cittadino ebreo? Che affidabilità e serenità di giudizio può garantire se deve occuparsi di una causa in materia di violenza antisemita, cioè la cosa ormai legittima se ha l’accortezza di definirsi antisionista?
Oggi io sarò in un altro tribunale e davanti a un altro giudice. La persona che assisto – definita “cane sionista” e “merda sionista” – è stata accusata pubblicamente di complicità perché non denuncia il genocidio. Quella persona si è affidata alla giustizia per avere giustizia. Avrebbe speranza di trovare giustizia se il giudice si mettesse a officiare il rito dei “Giuristi per Gaza”?