Il 7 ottobre non è finito: Hamas, media e l’inganno globale su Gaza

di Luigi Giliberti - 26 Novembre 2025 alle 10:33

Gaza, Thursday, Sept. 18, 2025. (AP Photo/Abdel Kareem Hana)
Il 7 ottobre non è stato un attacco. È stato un terremoto. Un punto di rottura. Il momento in cui si è visto cosa succede quando una struttura terroristica, finanziata e armata da Stati sovrani, decide di colpire al cuore un Paese che da sempre vive con il coltello alla gola. Quel giorno, Hamas non ha superato un confine: ha superato l’idea stessa di civiltà. E lo ha fatto con una precisione che nessuno, dopo aver visto i video, può fingere di non aver riconosciuto. Non è stata follia. Non è stata disperazione. È stata strategia. Dietro c’è l’Iran, che da anni usa Gaza come estensione del proprio braccio armato; c’è il Qatar, che ha trasformato l’élite di Hamas in una corte di milionari sparsi fra gli hotel di Doha; c’è la Russia, che aveva bisogno di un incendio geopolitico capace di spostare l’attenzione dall’Ucraina. Tre attori diversi, un solo obiettivo: indebolire Israele al punto da farlo implodere dall’interno. Il 7 ottobre doveva essere questo. Non una strage, ma la scintilla in grado di polverizzare uno Stato intero.
E invece il mondo ha deciso di raccontarla in un altro modo. Nel giro di 48 ore, il 7 ottobre è scomparso dal dibattito pubblico come se non fosse mai esistito. La narrazione dominante, soprattutto in Occidente, è diventata subito un’altra: Gaza come vittima assoluta, Israele come carnefice predeterminato, Hamas come soggetto quasi invisibile, utile solo per giustificare l’esistenza di una resistenza che, nei fatti, ha massacrato civili e filmato tutto mentre lo faceva. È stato il primo caso nella storia moderna in cui un attacco terroristico di quelle dimensioni è stato oscurato dalla reazione, e non viceversa. Questo perché una parte dei media occidentali aveva già pronto il copione. Non aspettava altro che l’innesco. E l’innesco è arrivato. Parole come “genocidio” e “carestia” sono state usate come pallottole ideologiche ancora prima che esistessero dati, rapporti, analisi. La fame è diventata un’immagine, non una condizione tecnica. E la sofferenza palestinese è stata trasformata in arma politica, non in tragedia da risolvere. Bastava uno smartphone a filmare un momento di caos per farlo diventare prova. Bastava un hashtag per diventare verità. Bastava ignorare un dettaglio: chi governava Gaza, da 17 anni, era un gruppo jihadista che ha investito miliardi in tunnel e missili, non in ospedali e infrastrutture.
La presunta carestia totale “già in corso” veniva dichiarata sui social settimane prima che gli organismi internazionali parlassero persino di rischio effettivo. Le immagini virali mostravano scaffali vuoti, ma nello stesso periodo circolavano video di mercati pieni, magazzini sequestrati da Hamas, camion di aiuti dirottati e rivenduti a prezzi impossibili. Per mesi si è voluto ignorare l’ovvio: Gaza aveva sempre ricevuto quantità enormi di aiuti. Il problema non era la quantità, ma chi li gestiva. Hamas ha usato il cibo come valuta, non come diritto. Ha usato il carburante per i tunnel, non per gli ospedali. Ha usato i civili come scudi, non come cittadini.
Nel frattempo, sui media occidentali, Gaza diventava una tragedia perfetta: semplice da raccontare, utile per polarizzare, ideale per costruire indignazione rapida. Ogni immagine di sofferenza diventava automaticamente colpa di Israele. Ogni spiegazione complessa spariva. Ogni tentativo di ricordare cosa fosse successo il 7 ottobre veniva considerato “fuorviante”, “strumentale”, “non utile alla pace”. E così la discussione è diventata tossica e monocromatica: Israele sbaglia sempre. Hamas non esiste. L’Iran è un dettaglio. Qatar una curiosità. Russia un fantasma. La contraddizione più grottesca è questa: nello stesso periodo in cui l’indignazione globale esplodeva per Gaza, in Sudan c’era – e c’è tuttora – un vero genocidio, riconosciuto, dichiarato, documentato. Milizie che bruciano villaggi, stuprano donne, massacrano intere comunità. Carestia tecnica certificata. Milioni di sfollati. Fame reale. Bambini che muoiono senza video virali. Ma nessuno si muove. Nessun campus occupato. Nessun artista indignato. Perché? Perché non c’è un nemico occidentale da demonizzare. Non c’è Israele. Non c’è narrativa “coloniale”. Non c’è bersaglio perfetto. Il Sudan non serve a nessuno per vincere una battaglia ideologica, e allora non esiste. E qui si capisce quanto sia stata manipolata l’indignazione globale. La sofferenza palestinese non interessa davvero. Interessa il modo in cui può essere usata contro Israele. È una verità scomoda, ma è la sola verità che spiega perché due tragedie umane così diverse ricevano un trattamento mediatico opposto.
Intanto, sul terreno, Gaza è diventata nel 2025 un mosaico impossibile. Hamas non è stata eliminata. Non è neanche vicina all’essere eliminata. Migliaia di combattenti sono ancora attivi, ancora armati, ancora dentro i tunnel, ancora pronti a uscire e sparare. La loro priorità non è ricostruire Gaza, proteggere i civili, distribuire aiuti. È un’altra: fare un nuovo 7 ottobre appena le condizioni lo permettono. E Israele lo sa. Lo vive sulla pelle ogni giorno. Perché vive in un mondo in cui basta un minuto di distrazione per perdere 50 civili, 100 civili, un kibbutz intero. Proprio come il 7 ottobre. La Striscia oggi è un caos ingestibile: zone controllate da Israele, zone dominate da Hamas, zone controllate da bande criminali, zone dove l’ONU non riesce a entrare e zone dove gli aiuti finiscono nelle mani sbagliate ancora prima di essere scaricati dai camion. Nessun governo reale, nessuna sicurezza reale, nessuna prospettiva reale. E chi paga? Sempre gli stessi: i civili palestinesi, stretti tra la repressione di Hamas, la guerra che Hamas ha provocato e la narrativa internazionale che ha deciso di usarli come simbolo, non come esseri umani.
I media occidentali hanno avuto una responsabilità enorme. Hanno fatto esattamente il contrario di ciò che avrebbero dovuto: non verificare, non contestualizzare, non frenare. Hanno scelto il sensazionalismo. Hanno scelto di non disturbare il pubblico. Hanno scelto i video facili, le immagini emotive, gli slogan già pronti. E questo ha generato un clima globale in cui ogni critica legittima è diventata impossibile, ogni discussione razionale è morta e ogni tentativo di capire la complessità veniva bollato come propaganda. La verità, quella che nessuno vuole dire, è che Gaza è stata distrutta da due forze diverse. La prima è la guerra, certo. La seconda – quella più rimossa – è Hamas. Un’organizzazione che per 17 anni ha governato senza costruire nulla, senza proteggere nessuno, senza dare futuro a un solo bambino. Ha trasformato Gaza in una fortezza sotterranea e la sua popolazione in una valuta da spendere. Ha rinunciato alla vita come scelta politica, perché la morte gli rende più facile sopravvivere.
Il 7 ottobre non è stato l’inizio della guerra: è stato la fine dell’illusione. L’illusione che si potesse convivere con un’organizzazione che vive per distruggerti. L’illusione che i media occidentali fossero arbitri imparziali. L’illusione che l’indignazione internazionale nascesse dalla compassione e non dalla convenienza ideologica. E la domanda vera, quella che brucia sotto tutta questa storia, rimane identica: quanti 7 ottobre servono prima che il mondo capisca che il problema non è la risposta, ma chi vuole sterminarti mentre sorride davanti alla telecamera? Israele vive in una realtà in cui, appena abbassa la guardia, qualcuno cerca di uccidere i suoi civili. Gaza vive in una realtà in cui chi la governa preferisce perpetuare la morte piuttosto che costruire la vita. L’Occidente vive in una realtà in cui la verità vale meno di un hashtag. È una combinazione perfetta per far sì che nulla cambi davvero. E finché questa verità resterà sepolta, il 7 ottobre non appartiene al passato. È un appuntamento. Rinviato, non cancellato.

Il grande archivio di Israele

Abbonamenti de Il Riformista

In partnership esclusiva tra il Riformista e JNS

ABBONATI