L'aggressione antisemita

Il racconto di Elie: “Picchiato all’autogrill solo perché ebreo, ma non toglierò mai la mia kippah”

di HaKol - 30 Luglio 2025 alle 09:57

Giù dagli aerei. Fuori dai negozi. Insultati per strada. Maltrattati nei locali. Il virus antisemita ormai non fa più notizia, eppure continua a diffondersi a macchia d’olio e a infettare l’anima dell’Occidente. È diventato pericoloso persino fermarsi in un’area di sosta e fare la fila per il bagno. Chi osa indossare la kippah finisce subito nel mirino, si ritrova con il dito puntato e accerchiato da persone che – con il sangue agli occhi – praticano la caccia all’ebreo. Elie si ferma sulla Milano Laghi, all’altezza di Lainate, e insieme a suo figlio entra nel punto ristoro. Alcuni presenti notano il copricapo ebraico e l’odio si prende la scena.

Viene bersagliato da uomini e donne. In pochi secondi è accerchiato e sommerso dalle urla: «Assassini, via da qui»; «Andrete all’inferno», «Andate a casa vostra, siamo in Italia»; «Palestina libera». Espressioni dette con ferocia e disprezzo verso due ebrei. Che devono pagare il conto della guerra a Gaza, anche se sono francesi e nulla hanno a che fare con il governo israeliano. Un perfetto, rivoltante esempio di antisemitismo. Che non trova limiti nemmeno in presenza di un bimbo di appena 6 anni. I ferventi pro-Pal non vogliono farla passare liscia all’uomo e vanno all’azione. Gli occhiali rotti e le botte subite sono i segni permanenti che il 52enne porterà per sempre sul suo corpo.

Elie racconta al Riformista che tutto è partito dal solito slogan: «Ero appena entrato. Proprio nel momento in cui scendevo le scale per andare al bagno, un uomo ha iniziato a gridare “Free Palestine”. Poi gli altri hanno iniziato a scatenarsi». Riprende tutto con il cellulare: immortala i volti di chi ha sprigionato intolleranza, anche con la tipica mimica di chi ritiene di possedere una superiorità morale. Dopo momenti di tensione, Elie prende il figlio per mano e lo porta ai servizi al piano di sotto. È convinto che tutto sia finito. E invece, una volta uscito dal bagno, davanti agli occhi trova una scena inquietante: un corridoio pieno, circa 10 persone che sbraitano e gli intimano con veemenza di cancellare il video. «Tra di loro c’erano sicuramente degli arabi, ho sentito pronunciare parole arabe nei miei confronti», è il dettaglio che non sfugge. Ma lui non ne vuole sapere: togliere dalla memoria quelle immagini significherebbe far cadere nel dimenticatoio una testimonianza tanto agghiacciante quanto preziosa. Il suo «no» manda su tutte le furie alcuni componenti del gruppo, che a quel punto si scaraventano contro l’uomo. Volano calci e pugni. Elie si ritrova a terra, picchiato davanti agli occhi terrorizzati del piccolo. Attorno regna l’indifferenza. «Non c’è stato uno, neanche uno, che abbia preso le mie difese o detto qualcosa. La gente usciva dai bagni come se nulla fosse». Solamente una signora rompe il muro dell’omertà: si avvicina al bambino, lo mette al sicuro e lo consola.

L’esperienza traumatizza il piccolo, che per diverse ore resta sotto choc. Sul posto arriva la polizia. Elie fornisce ogni minimo particolare di quanto accaduto, nella speranza che gli aggressori non la facciano franca. Gli agenti non sembrano sorpresi: ormai episodi di questo tipo sono all’ordine del giorno. Ma una cosa è certa: Elie non toglierà la kippah. «Alcuni hanno consigliato di toglierla e di nascondere i simboli religiosi. Ma così mostrerei di non essere più ebreo. Ed è assolutamente impossibile che io lo faccia», giura. Il clima d’odio continua ad abbattersi sulla comunità ebraica. In tutto il mondo, a prescindere dalla nazionalità. È l’antisemitismo che rialza la testa. A ripresentarsi è la stessa ombra che spalancò le porte all’abisso della disumanità.

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