Il ricordo della Shoah è diventato un rito vuoto: la scuola diventa il campo della battaglia ideologica
di Giuseppe Altamore - 22 Ottobre 2025 alle 14:11
Le parole della ministra Eugenia Roccella sulle «gite scolastiche nei campi di concentramento» hanno scosso anche chi lavora da anni nel mondo della scuola. «Mi hanno impressionato – racconta un’insegnante di religione in una scuola media livornese che desidera mantenere l’anonimato – perché sapevo che quel termine, “gita”, avrebbe ferito molti. Ma, purtroppo, descrive bene ciò che i viaggi della memoria erano diventati: una consuetudine svuotata, un rito per lavarsi la coscienza. Si va a piangere ad Auschwitz, si depone un fiore e poi tutto finisce lì».
Nelle sue parole c’è l’amarezza di chi vede sbiadire il senso della memoria, ma anche la fatica di chi, in classe, cerca di tenere accesa una luce. «Lavoro in una scuola media – spiega – e i miei ragazzi, per fortuna, sono ancora curiosi. Non hanno piena coscienza di ciò che accade in Medio Oriente, ma vogliono capire. Hanno voglia di parlare di Shoah e di ebraismo, solo che non trovano docenti pronti ad ascoltarli. Io cerco di farlo, anche perché ho vissuto da vicino il dialogo ebraico-cristiano accanto a monsignor Alberto Ablondi, quando a Livorno nacque la Giornata del dialogo con gli ebrei. Ma oggi sembra tutto lontano».
La docente spiega come in classe parta sempre dalle radici: «Faccio conoscere la storia dell’ebraismo, la geografia della Terra Santa, il legame profondo tra Israele e il cristianesimo. Spiego che Gesù era ebreo, non cristiano – ma molti mi dicono i primi giorni: “Professoressa, ma Gesù era cristiano?”. È il segno di una percezione storica alterata, dove l’ebraismo si studia solo in relazione agli Egizi. E un’altra frase mi ferisce: “Maria era palestinese”. Lo crederà strano, ma l’ho sentito dire anche da sacerdoti».
Ma fuori dall’aula l’aria è pesante. «Tra i colleghi la maggioranza si è schierata apertamente con la causa palestinese. Chi prova a esprimere una posizione più equilibrata viene isolato. Alcuni non hanno mai digerito il Concilio Vaticano II: per loro, gli ebrei restano i “deicidi”. E così il dramma dei civili di Gaza diventa il pretesto per riproporre vecchi pregiudizi».
Poi racconta un episodio: «A scuola era stato invitato un esponente di Emergency per parlare di ospedali e assistenza medica. A un certo punto un ragazzo ha chiesto se Hamas fosse un’organizzazione terroristica. Il rappresentante ha risposto: “No, perché hanno vinto le elezioni”. Ci sono rimasta di sasso. È stato un momento rivelatore: persino davanti ai ragazzi, la verità storica viene piegata all’ideologia».
Chi ha affrontato Gaza con spirito critico è una minoranza. «Chi non si è allineato alle parole d’ordine pro-Pal è stato emarginato. La scuola riflette il clima della città, dove la presenza ebraica – storicamente forte – oggi convive con un sentimento antisemita diffuso che preoccupa».
Livorno fu per secoli modello di convivenza religiosa. Fin dal Cinquecento, con le “Livornine” del 1591-93, la città offrì incentivi e libertà agli ebrei espulsi dalla penisola iberica: libertà di commercio, diritto di culto e protezione dall’Inquisizione. A Livorno non esistette mai un ghetto chiuso: gli ebrei vissero integrati nella città, contribuendo alla sua crescita economica e culturale. Anzi, la città divenne il rifugio degli ebrei perseguitati nello Stato Pontificio. Nel Settecento la comunità ebraica rappresentava una parte significativa della popolazione cittadina; oggi ne restano circa 500 persone, con un’età media avanzata. È una delle comunità più antiche e vivaci d’Italia, ma ridotta numericamente rispetto al passato. La sinagoga ricostruita nel 1962 su progetto di Angelo Di Castro e il Museo Ebraico “Yeshivà Marini” custodiscono una memoria preziosa che rischia di affievolirsi. Perfino il sindaco, Luca Salvetti, durante una recente fiaccolata pro-Pal ha bacchettato la Comunità ebraica, colpevole, a suo dire, di non dissociarsi dal genocidio dei palestinesi.
«Era una città che, una volta, accoglieva culture diverse come valore», conclude la docente. «Oggi quella Livorno sembra vivere solo nel ricordo, mentre le tensioni ideologiche entrano nelle scuole e perfino nella memoria. La città della tolleranza non riconosce più sé stessa».