Cultura
Il sionismo critico e ragionevole di Hannah Arendt
di HaKol - 11 Settembre 2025 alle 13:48
“Ebraismo e Modernità” è uno di quei libri da leggere assolutamente. Si tratta di una raccolta di saggi ormai ritenuta classica di Hannah Arendt (1906-1975), probabilmente la maggior teorica politica del Novecento. Leggere o rileggere queste pagine nel 2025 è un’operazione culturale utile e necessaria, anche per stupirsi al modo aristotelico riguardo alle impressionanti capacità di analisi e previsione lucida che Arendt riesce a mettere sul tavolo, più di mezzo secolo fa, riguardo alla questione israelo-palestinese. I saggi che più custodiscono preziosa saggezza sono “Noi profughi” del gennaio 1943, “Ripensare il sionismo”, dell’ottobre 1945, “Creare un’atmosfera culturale”, del novembre 1947, e “Salvare la patria ebraica. C’è ancora tempo”, del maggio 1948.
Qui si indaga il rapporto tra identità ebraica e la storia sociale-politica europea, con particolare attenzione alle tensioni tra assimilazione, sionismo e la crisi della modernità. Il libro si distingue per la profondità della riflessione arendtiana sulle origini e le implicazioni storiche, sociali e filosofiche dell’ebraismo contemporaneo.
La differenza fra “stato” e “patria” ebraica
L’autrice offre una critica articolata delle principali correnti del pensiero ebraico moderno. Arendt distingue tra un sionismo di matrice nazionalista derivante da Theodor Herzl, che mira a costruire uno Stato ebraico sul modello dello Stato-nazione europeo (che lei condanna e dal quale prende le distanze), e una corrente facento capo a Bernard Lazare (e Martin Buber), antinazionalista, più utopica e orientata ai valori dell’universalismo, della giustizia e dell’innovazione sociale, esemplificata dai kibbutzim e dallo sviluppo culturale in Palestina.
La sua posizione, fortemente critica nei confronti delle istituzioni ebraiche tradizionali e della risposta al nazismo, la porta a vedere nell’assimilazione e nella chiusura etnico-nazionale due facce della stessa “fuga dalla realtà”, incapaci di affrontare davvero il problema posto dall’antisemitismo e dalla condizione diasporica.
Il sionismo ragionevole di Arendt
Il sionismo segna per Arendt una svolta nella storia ebraica: alla rassegnazione, all’accettazione del dolore dell’erranza infinita si sostituisce ‘il desiderio di fare qualcosa del problema ebraico’, la volontà di agire e di risolvere questo problema”. Tuttavia, l’autrice mette in guardia dal rischio di cecità politica e isolamento autoimposto che, secondo lei, avrebbero potuto portare a uno scontro permanente con il mondo arabo e a nuove forme di nazionalismo esclusivo: “Dietro questo falso ottimismo, comunque, si celano un’assoluta disperazione e un’autentica disposizione al suicidio”.
Un altro tema centrale è la riflessione sulla crisi della condizione ebraica nella modernità: la perdita di punti di riferimento, lo stigma dell’appartenenza e il difficile equilibrio tra integrazione e differenza. Secondo Arendt, i limiti della risposta moderna al problema ebraico stanno proprio nell’incapacità di gestire la pluralità e la differenza, sostituiti ora dalla pretesa omologazione (nazionalista o assimilazionista), ora dalla rivendicazione di una separatezza che può sfociare nell’autoisolamento politico e sociale.
Il significato della modernità ebraica
La scrittura di Arendt, sempre tesa tra analisi storica, riflessione filosofica e sguardo critico sul presente, porta il lettore a interrogarsi sul significato della modernità ebraica, sulla possibilità e sui limiti dell’autonomia culturale e politica, sull’incompiutezza della cittadinanza nella società moderna e sulle vie di uscita dall’impasse dell’identità. Alla prova della storia, le sue previsioni, o meglio le sue intuizioni, non solo si sono dimostrate vere, ma dovrebbero costituire un punto di riferimento per chiunque affronti oggi questi temi.
Solo per fare una (lunga) citazione, delle almeno dieci che sarebbe necessario offrire in questa mia recensione:
“L’esito definitivo di una guerra totale tra arabi ed ebrei è quasi certo. Si possono vincere molte battaglie senza vincere la guerra. E finora, in Palestina, non ancora avuto luogo alcuna vera battaglia. Inoltre, anche se gli ebrei dovessero vincere la guerra, la sua fine costituirebbe l’unica possibilità e l’unica realizzazione del sionismo nella Palestina distrutta. La nuova terra sarebbe qualcosa di molto diverso dal sogno degli ebrei di tutto il mondo, sionisti e non sionisti. Gli ebrei “vittoriosi” vivrebbero circondati da una popolazione araba interamente ostile, segregati entro confini perennemente minacciati, a tal punto occupati a difendersi fisicamente da eliminare ogni altro interesse e ogni altra attività. L’intero popolo smetterebbe di interessarsi allo sviluppo della cultura ebraica; rinuncerebbe agli esperimenti sociali, quasi fossero lussi privi di importanza pratica; il pensiero politico sarebbe centrato sulla strategia militare; lo sviluppo economico sarebbe determinato esclusivamente dalla necessità della guerra. E questa sarebbe la sorte di una azione che – indipendentemente dal numero di immigrati che potrebbe ancora assorbire e dall’estensione del suo territorio (nel quale, secondo la folle richiesta revisionisti, dovrebbero rientrare Palestina e trans Giordania) – continuerebbe ad essere un piccolo popolo soverchiato dalla prevalenza numerica e dall’ostilità dei suoi vicini. (…) Alla fine, gli ebrei di Palestina si separerebbero dalla più consistente massa degli ebrei delle altre parti del mondo e si trasformerebbero, nel loro isolamento, in un popolo completamente nuovo. Diventa così chiaro che, in questo momento e nelle circostanze attuali, l’edificazione di uno Stato ebraico può avvenire solo a scapito di una patria ebraica.” (Da “Salvare la patria ebraica. C’è ancora tempo”, maggio 1948.)
La diatriba con Scholem
Posizioni critiche e autocritiche della propria parte, cesellate con la consueta precisione atomica di Arendt. Ho trovato molto bella l’inclusione in questa raccolta del famosissimo scambio epistolare con Gershom Scholem, scambio incluso quasi sempre come introduzione o postfazione dell’opera celeberrima La banalità del male. Qui Scholem, studioso della mistica ebraica e amico di lunga data di Arendt, presenta all’autrice una serie di critiche molto dure e senza appello. Anzitutto l’accusa di mancanza di empatia verso il popolo ebraico:
“Ciò che manca nel tuo libro è Ahavat Yisrael […] Tu non hai amore per il popolo ebraico”.
Scholem usa l’espressione ebraica “Ahavat Yisrael” per rimproverarle la freddezza, la mancanza di partecipazione emotiva verso il destino ebraico durante la Shoah. Per lui, il tono del libro è troppo freddo e distaccato – addirittura sarcastico – rispetto a una tragedia irrappresentabile. La rimprovera: “Tu parli dell’ebreo con il distacco dell’osservatore esterno. Non è il tuo giudizio a colpire, ma il modo in cui lo esprimi.” Scholem distingue tra il contenuto dell’analisi e il tono: è quest’ultimo a ferirlo, poiché percepito come sprezzante e lontano.
Scholem sottolinea che, nel momento in cui l’ebraismo è sotto attacco (storico e morale), occorre mostrare solidarietà, non distacco critico. Il maestro insinua che Arendt, nel tentativo di mantenere oggettività, si pone “al di sopra” della storia ebraica.
Arendt risponde amareggiata, sostenendo che l’amico si è fatto influenzare dalle critiche che molti sionisti hanno riservato al libro. Rivendica il diritto di pensare criticamente anche verso il proprio popolo, senza essere accusata di tradimento:
“Io non amo i popoli, non amo le collettività, non amo le classi. Amo solo i miei amici.”
Il compito del filosofo secondo Arendt
Arendt ribadisce che il pensiero deve rimanere libero e indipendente da appartenenze identitarie. Il compito del filosofo, secondo lei, è quello di pensare senza vincoli imposti dalla fedeltà di gruppo. Sagace il passaggio in cui Arendt rivendica:
“L’amore per il popolo ebraico mi sembrerebbe, dato lo stato attuale delle cose, alquanto sospetto: è un sentimento che ha molto a che vedere con l’odio per gli altri popoli.” e quindi critica ogni tipo di nazionalismo affettivo, sottolineando che l’amore etnico può sfociare facilmente nell’esclusione o nell’odio degli altri. Un’ultima citazione famosa: “Nel momento in cui non si ha più il diritto di pensare, si è perduto anche il diritto di giudicare.”, dove a mio avviso Arendt fa gioco, partita, incontro nel dialogo con Scholem.
In sintesi, “Ebraismo e modernità” è un testo ricco di visione e profondità, che interroga radicalmente il rapporto tra ebrei e società moderna, senza cedere alle semplificazioni identitarie né alle fughe utopiche — restituendo tutta la tensione produttiva, ma irrisolta, tra identità, storia e politica.