Le Ragioni di Israele

La giustizia italiana ha creato un ghetto giudiziario: il caso dei giudizi politici sui fatti di Gaza

di Iuri Maria Prado - 26 Settembre 2025 alle 10:05

“Una sanguinosa punizione collettiva”. Questa frase, contenuta in un’ordinanza giudiziaria della primavera del 2024, ha segnato il cambio di passo della giustizia italiana in materia di antisemitismo. In nome del popolo italiano, un giudizio politico sui fatti di Gaza – legittimo sulla pagina di un giornale o in una chiacchiera da bar – si incartava in un provvedimento giudiziario e si rivoltava, respingendola, contro la richiesta di tutela di un cittadino ebreo accusato di fare “propaganda nazista”, di avere “le mani sporche di sangue” e di godere di impunità essendo parte del circuito sionista che controlla i mezzi di informazione.

La più detestabile retorica di stampo antisemita mandata assolta perché la popolazione palestinese sarebbe sottoposta a “una sanguinosa punizione collettiva”, cosa che giustificherebbe e renderebbe inoffensiva, trasfigurandola in legittimo “diritto di critica”, una lunga teoria di insulti contro un giornalista ebreo. Da lì in poi, sempre più spesso e sempre più gravemente il campo della giurisprudenza in materia si sarebbe segnalato per la presenza di analoghe contaminazioni politico-ideologiche: zone sempre più estese sottoposte non più al governo del diritto, ma alla pressione del pregiudizio. Non sarebbero mancate, e avrebbero preso a moltiplicarsi, divagazioni sul “genocidio” quando l’ebreo di turno era accusato (giusto perché non lo denunciava) di “coprirlo”, addirittura con l’evocazione di inesistenti provvedimenti della Corte Internazionale di Giustizia che ne avrebbero statuito la “plausibilità” (una fesseria passabile, ancora una volta, se detta al bar, non se messa nero su bianco da un magistrato).

Da lì in poi sarebbe stato possibile apprendere che Hamas è un “movimento militante”: ma non era un convegno sulle fattezze socio-politiche del gruppo palestinese, era un ordinario caso di istigazione alla commissione di delitti ai danni di cittadini che non la pensavano come l’ordinario corteo pro-Pal. Sarebbe stato possibile, di lì in poi, apprendere che il servizio pubblico radiotelevisivo deve uniformarsi alle direttive giudiziarie circa l’indicazione della “vera” capitale di Israele, con i palinsesti opportunamente strutturati per lasciare spazio al proclama che “non è Gerusalemme”. Sarebbe stato possibile, di lì in poi, apprendere che si può dare di “razzista e nazista” al giornalista ebreo il cui lavoro si pone in “contrasto con l’idea di informazione giornalistica” del diffamatore (e del giudice), di modo che quegli insulti assumerebbero l’innocuo rilievo di “coloritura polemica”.

Questo andazzo, che giunge a formalizzarsi nelle sottoscrizioni che molti magistrati hanno apposto al manifesto dei “Giuristi per Gaza” (un appello di cui si pretende la lettura all’inizio delle udienze), attenta alla credibilità e alla affidabilità della giurisdizione e fa anche peggio che violentare la legge uguale per tutti: crea, infatti, un diritto speciale. Una specie di ghetto giudiziario allestito per il trattamento di certi argomenti e quando la giustizia si applica a una certa categoria.

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