L'intervista dopo le polemiche

La ministra Roccella e i “treni per Auschwitz”: “L’antisemitismo non è finito ma bisogna saperlo riconoscere, oggi nelle famiglie si discute meno”

di HaKol - 14 Ottobre 2025 alle 11:27

Eugenia Roccella, ministra per la Famiglia, la natalità e le pari opportunità, già parlamentare, giornalista e saggista, è da tempo impegnata contro ogni forma di negazionismo e antisemitismo. La abbiamo intervistata subito dopo il suo intervento alla conferenza Ucei “La storia stravolta”.

Ministra Roccella, partiamo dalle parole che hanno fatto discutere: ci dice chiaramente cosa intendeva dire parlando dei “treni per Auschwitz”?
«Ho detto che se non si riconosce l’antisemitismo che si respira oggi, e non lo si spiega ai ragazzi, si rischia di ridurre le visite ai campi di concentramento a semplici gite. I viaggi nei luoghi dell’Olocausto sono fondamentali — io stessa ho promosso due grandi mostre sull’Olocausto al Maxxi — ma servono solo se accompagnati dalla consapevolezza che l’antisemitismo non è finito. È ancora presente, nel sottofondo della nostra cultura. Bisogna riconoscerlo e affrontarlo».

Lei ha citato il 7 ottobre come una data di cesura. Perché?
«Perché nei giorni immediatamente successivi non c’è stata una vera solidarietà verso le vittime. Nessuna grande manifestazione studentesca di vicinanza ai ragazzi del Nova Festival, uccisi, stuprati, torturati solo perché ebrei e israeliani. Non c’era ancora la guerra, non c’erano le vittime civili palestinesi: le uniche vittime erano israeliane. Eppure non ci siamo identificati con loro. Il mio messaggio è chiaro: esiste un antisemitismo strisciante, e non possiamo continuare a confinarlo nel passato, al nazifascismo. Dobbiamo guardare al presente e denunciare ciò che vediamo e ascoltiamo».

Le istituzioni come possono reagire a questo clima?
«Bisognerebbe ripartire dal pensiero, quindi dalle università. Oggi le università mancano al loro compito. Ho citato un fatto che mi ha colpito: l’Università di Bologna, la mia città, ha approvato una mozione per interrompere i rapporti con le istituzioni culturali israeliane. È un segno grave, un’involuzione profonda. La cultura dovrebbe essere apertura e confronto, non esclusione. Invece chi studia oggi va alle manifestazioni con un grande livello di inconsapevolezza. L’inconsapevolezza non è innocenza: è una mancanza di conoscenza di cui gli adulti, e non i ragazzi, portano la responsabilità».

Questa inconsapevolezza riguarda anche i movimenti femministi?
«Sì, e l’ho trovato molto doloroso. Dopo il 7 ottobre, durante le manifestazioni di “Non una di meno”, alcune femministe storiche sono state di fatto respinte: erano ebree. Nello stesso tempo venivano celebrate le donne palestinesi, senza che si riconoscesse quanto accaduto quel giorno: stupri, torture, mutilazioni di giovani donne, uccise in quanto ebree, occidentali, e donne. In Francia, l’associazione Paroles des Femmes ha definito il 7 ottobre un femminicidio di massa, e aveva ragione. Eppure, nelle piazze italiane, quel tema è stato espunto, rimosso, come se fosse “fuori tema”».

Lei parla spesso di una frattura educativa tra generazioni. C’entra anche questo con il dilagare dell’odio e dell’ignoranza?
«Sì. I giovani oggi sono scollegati dai racconti dei genitori e dei nonni. Nelle famiglie si discute meno, manca il dialogo intergenerazionale. Si cresce dentro il gruppo dei pari, anche online, senza filtri e senza riferimenti adulti. Questo è un problema educativo enorme. Le famiglie vanno sostenute, non depotenziate. Oggi si delega tutto alla scuola, ma la scuola da sola non basta: serve un’alleanza scuola-famiglia. Con i centri per la famiglia stiamo cercando di ricostruire reti sociali e comunità educanti. Un tempo era la parentela a svolgere questo ruolo; oggi, con la denatalità e la solitudine crescente, dobbiamo reinventare una nuova forma di comunità».

Quindi la famiglia resta il primo presidio educativo contro l’antisemitismo e l’intolleranza?
«Assolutamente sì. La famiglia è il primo luogo dove si impara il rispetto, la libertà, il senso dell’altro. Se la famiglia è forte, la società è più capace di riconoscere e respingere l’odio. Dobbiamo tornare a valorizzarla, non come struttura chiusa, ma come rete viva, come comunità educante. Solo così potremo difendere davvero la memoria e impedire che la storia venga, di nuovo, stravolta».

Il grande archivio di Israele

Abbonamenti de Il Riformista

In partnership esclusiva tra il Riformista e JNS

ABBONATI