Svastiche sui muri, minacce, aggressioni e lettere anonime
La normalizzazione dell’odio condanna gli ebrei italiani: siamo assuefatti all’antisemitismo, costretti a conviverci
di Carmen Dal Monte - 5 Dicembre 2025 alle 18:27
C’è una metafora che ho sempre detestato – quella della rana bollita – e proprio per questo, negli ultimi anni, ha iniziato a perseguitarmi. Racconta di un animale che, immerso in acqua tiepida, si lascia sfuggire l’aumento graduale della temperatura e finisce per restare immobile anche quando ormai sarebbe troppo tardi per saltare fuori. Ebbene, da ebrea italiana, mi rendo conto che questa immagine oggi mi riguarda più di quanto vorrei ammettere. Sono cresciuta in un Paese che si percepiva come guarito dall’antisemitismo.
Un Paese che si dichiarava “vaccinato dalla storia”, in cui l’antisemitismo veniva descritto come un relitto della destra più estrema o come un imbarazzo sociologico. I dati dell’Osservatorio Antisemitismo del CDEC raccontano altro: nel 2023 gli episodi confermati sono saliti dell’88% rispetto all’anno precedente; nel 2024 sono quasi raddoppiati, arrivando a 877, il numero più alto da quando esiste un monitoraggio sistematico; nei primi otto mesi del 2025 siamo già oltre 600. In dieci anni, senza che ce ne accorgessimo davvero, la temperatura è salita.
E, come accade alla rana, anche noi abbiamo imparato a stare nell’acqua. Prima sono arrivati gli insulti online – 259 nel 2023, oltre 600 nel 2024 – facilmente archiviati come “odio da tastiera”. Poi i graffiti, le svastiche sui muri, la dissacrazione delle pietre d’inciampo, sempre più frequenti. Poi le minacce, le lettere anonime, le aggressioni fisiche: 32 nel 2023, 68 nel 2024. Ogni volta ci siamo detti: passerà. Ogni volta abbiamo cercato una spiegazione esterna: la crisi politica, la guerra, le tensioni internazionali, Netanyahu, i coloni. Ogni volta abbiamo abbassato la soglia.
Il punto è che la temperatura ha continuato a salire. E, soprattutto, questo aumento ha seguito una logica precisa. Una parte crescente dell’antisemitismo italiano – circa il 40% dei casi nel 2024 – passa oggi attraverso il linguaggio dell’antisionismo. Una forma di ostilità che si maschera da impegno morale: basta spostare la colpa su Israele, e tutto diventa dicibile. Gli slogan che inneggiano alla cancellazione di uno Stato vengono percepiti come opinioni politiche. Le intimidazioni contro studenti ebrei nelle università – boicottaggi, pressioni, inviti a tacere – vengono archiviate come “tensioni comprensibili”. Il vecchio pregiudizio trova così un nuovo lessico di rispettabilità.
Lo so bene perché ho vissuto anch’io questo scivolamento. All’inizio rispondevo, spiegavo, contestavo. Poi ho iniziato a riconoscere il meccanismo più pericoloso: la normalizzazione. Un giorno ti tolgono il nome da un convegno “per evitare polemiche”. Il mese dopo un collega ti suggerisce, con tono paterno, che “in questo momento è meglio restare defilati”. E quasi senza accorgertene, ti abitui a tenere la mano abbassata quando in un’aula universitaria si parla di Israele come se fosse un’entità metafisica del male. Ti abitui a essere prudente, a modulare le parole, a capire quando è il caso di tacere. A restare nell’acqua.
Molti italiani continuano a dirsi solidali con “gli ebrei”. Ma spesso si tratta degli ebrei morti, quelli delle cerimonie ufficiali. Gli ebrei vivi – quelli che studiano, scrivono, discutono, dissentono – sono percepiti come irrilevanti o ingombranti. È qui che la metafora della rana diventa inquietante: la nostra condizione va ben oltre l’idea di vittime passive, perché il contesto ha imparato a rendere accettabile ciò che resta inaccettabile, a rendere progressivi gli scatti dell’ostilità, a farci credere che esista sempre una soglia ulteriore prima della quale reagire sembra eccessivo.
Il pericolo maggiore, oggi, va oltre l’odio. È l’assuefazione. È la convinzione – diffusa, persino comprensibile – che ogni episodio appaia come un incidente isolato invece che come un sistema. È la tentazione, per noi ebrei, di restare nell’acqua per preservare gli equilibri, di essere “ragionevoli” anche quando la ragione avrebbe il dovere di gridare. Il punto di ebollizione, temo, si avvicina. E se c’è una responsabilità che sento come intellettuale ebrea, è proprio questa: ricordare che saltare fuori rappresenta un atto di lucidità più che di paura. Che qui è in gioco la nostra presenza, più che l’allarmismo. Che la memoria, se deve avere un senso, va oltre la commemorazione di ciò che è stato e permette di riconoscere ciò che sta accadendo. Perché l’acqua, ormai, è davvero molto calda. E continuare a chiamarla “tiepida” non ci salverà.