La nuova frontiera dell’antisemitismo: la scienza sotto attacco
di Paolo Crucianelli - 1 Settembre 2025 alle 07:44
C’è un paradosso che inquieta e fa riflettere: proprio nei templi del sapere, dove si pratica il metodo scientifico, si stanno diffondendo forme sempre più aperte di antisemitismo. Non stiamo parlando di qualche isolata voce fuori dal coro, ma di un clima generalizzato e crescente, che ha preso forma dopo il 7 ottobre 2023, all’indomani del più grave pogrom contro ebrei dalla Seconda guerra mondiale.
Da un’intervista che ho fatto ad una consulente israeliana, che desidera rimanere anonima e chiameremo Nechaya, la quale lavora con ricercatori israeliani ed europei, emergono numerose testimonianze dirette, e viene descritto un ambiente accademico ormai attraversato da sentimenti ostili verso i ricercatori israeliani — e talvolta anche verso quelli ebrei in generale — che nulla hanno a che fare con le analisi, la logica, la razionalità, oltre all’inclusione, che dovrebbero governare ogni ambito scientifico.
A distanza di poco tempo dal massacro perpetrato da Hamas, nei progetti europei già si discuteva apertamente se e come “punire” i colleghi israeliani, talvolta camuffando l’intento con pretesti tecnici, altre volte con argomentazioni esplicitamente politiche e ideologiche. Un ricercatore danese riferiva che i suoi colleghi parlavano senza reticenze di espellere gli israeliani dai consorzi di ricerca, mentre lui stesso cercava di difenderli sottolineando che la gran parte dell’accademia israeliana è notoriamente antigovernativa.
Eppure, questo non è bastato. Le discriminazioni sono continuate e anzi, si sono intensificate. Ricercatori isolati, verbalmente aggrediti durante conferenze, esclusi da progetti già approvati. In un caso, una ricercatrice ha visto comparire durante una presentazione ufficiale lo slogan “Free Palestine” lasciato sullo schermo da un relatore: alla sua garbata protesta, rivolta al comitato organizzativo senza nemmeno entrare nel merito del conflitto, è seguita una pubblica accusa personale e un tentativo di delegittimazione professionale.
Altrove, un ricercatore israeliano in un’università italiana ha assistito a una votazione del proprio dipartimento in cui, all’unanimità meno il suo voto, si è deciso di interrompere ogni forma di collaborazione con accademici israeliani. In un’università prestigiosa degli Stati Uniti, un dottorando israeliano è stato costretto ad abbandonare il suo percorso a causa di pressioni e atti persecutori. Il suo collega, oggi al MIT, ha intentato causa all’università stessa, dopo aver subito insulti e dopo che l’amministrazione non è intervenuta in sua difesa.
Il dato più sconcertante è che molti di questi atti vengono giustificati con la guerra a Gaza, come se la ricerca scientifica dovesse trasformarsi in un campo di battaglia ideologico. E invece dovrebbe essere proprio l’opposto: la scienza è, per definizione, un bene comune che travalica confini, bandiere e appartenenze. La collaborazione scientifica internazionale è una delle colonne portanti del progresso umano. Boicottare Israele significa ostacolare la scienza stessa, dal momento che Israele è all’avanguardia in moltissimi settori, dalla medicina alla sicurezza informatica, dalle neuroscienze all’agricoltura.
Proprio perché la ricerca è un bene comune, contaminarla con derive ideologiche e razziste è un comportamento incredibilmente sciocco. Non solo perché colpisce ingiustamente individui che spesso hanno posizioni politiche personali assai distanti dalle scelte del loro governo, ma perché danneggia l’intero ecosistema della conoscenza.
Nechaya assiste quotidianamente alla preparazione di richieste di finanziamento da parte di ricercatori di altissimo livello, in prevalenza nelle scienze esatte. Riporta che, dopo il 7 ottobre, in molte sedi accademiche europee si sono affermate forme di discriminazione sempre più esplicite, con accademici israeliani ostracizzati o messi in difficoltà, nonostante la loro eccellenza e l’estraneità alle decisioni del governo di Gerusalemme. Ma sottolinea anche un dato ancor più inquietante: nelle discipline umanistiche, questo clima era presente da anni, ben prima della guerra a Gaza. L’antisemitismo accademico, dice, è in molti casi una forma di intolleranza “di sinistra contro la sinistra”, dove sia i persecutori che i perseguitati appartengono allo stesso campo ideologico, ma l’identità ebraica diventa un bersaglio; in una sorta di “caccia all’ebreo” tutta interna alla sinistra.
Proprio per questo non ci possono dire che si tratta di posizioni critiche verso le politiche governative di Israele. È un fatto, oggi riconosciuto da molti ricercatori israeliani, che si tratti di antisemitismo, anche se mascherato da moralismo o da finto pacifismo. La ricerca europea non è nuova a cadute etiche. La Storia lo ha già dimostrato. Ma l’insegnamento non sembra essere servito a molto, giacché assistiamo ad un sinistro ritorno delle stesse tematiche che caratterizzarono gli ambienti accademici negli anni ’30 del secolo scorso, quando si arrivò al parossismo di distinguere la “fisica tedesca” dalla “fisica ebraica”, considerata corrotta e degenerata.
Gli ultimi bandi ERC hanno registrato per Israele un tasso di successo molto inferiore rispetto alla media storica. Un caso? Può darsi. Ma nel contesto appena descritto è lecito sospettare il contrario.
La comunità scientifica dovrebbe essere il baluardo della logica, della verifica, del rigore e del pensiero critico. Se cede al pregiudizio e alla propaganda, perde la sua funzione e tradisce se stessa.
Per questo è necessario denunciare, con forza, ciò che sta accadendo. L’antisemitismo, in qualunque forma si presenti — anche quando indossa il camice bianco della scienza — resta inaccettabile. E va chiamato col suo nome.