La propaganda in tempo di guerra e il Leone d’Argento a Venezia

di Paolo Crucianelli - 9 Settembre 2025 alle 07:33

Se guardassimo oggi un film tedesco, di argomento bellico, realizzato nel corso della Seconda guerra mondiale, lo considereremmo senza esitazione un prodotto di propaganda. Lo stesso varrebbe se rivedessimo i documentari sull’andamento del fronte che venivano proiettati in America prima di un qualsiasi film: non si tratta di un giudizio critico, ma di una mera constatazione dei fatti. È del tutto naturale che, in un conflitto, le parti in causa facciano uso della propaganda.

Questa razionalità, che applichiamo senza difficoltà al passato, dovrebbe guidarci anche nel presente. E nello specifico riguardo al film, ovunque osannato, che ha vinto il secondo premio (ed una serie di premi secondari) all’ultima Mostra del Cinema di Venezia: The Voice of Hind Rajab della regista tunisina Kaouther Ben Hania, con un cast interamente palestinese.

La guerra è ancora in corso e, per questo, nonostante la regista abbia un curriculum di tutto rispetto e non possa certo essere liquidata come un’attivista anti-occidentale o anti-israeliana, il film non può che essere considerato un’opera di propaganda, e non può quindi indossare il vestito di film-verità che invece pretende di fare.

È troppo facile strumentalizzare un dramma umano come quello della bambina protagonista. Chi mai non si commuoverebbe davanti a una vicenda così drammatica? Proprio qui sta il punto: la sofferenza viene trasformata in uno strumento ideologico, in merce narrativa. È un’operazione che non può pretendere di essere letta come un racconto universale del dolore umano, perché inevitabilmente racconta quel dramma, in seno a quella guerra, da quella sola parte.

Sottolinearlo non significa negare la tragedia: Hind Rajab è stata davvero una vittima innocente, e la sua morte è straziante. Così come è vero che l’IDF ha commesso un clamoroso errore. Ma l’uso cinematografico che se ne fa oggi, proprio mentre il conflitto è ancora in pieno svolgimento, non ha il valore della testimonianza neutrale: ma quello della mobilitazione emotiva funzionale a una causa politica. Ed è proprio il dolore lacerante che la pellicola suscita nello spettatore a trasformarsi in un mezzo di propaganda.

C’è, in questa scelta, una assoluta mancanza di pudore, soprattutto nell’utilizzare la vera voce disperata di quella povera bambina. Diventa un esercizio ideologico che considero esecrabile.

Israele, se avesse voluto, avrebbe potuto fare altrettanto. Avrebbe potuto sbattere in faccia al mondo il documentario integrale del pogrom del 7 ottobre, Bearing Witness: 47 minuti di dolore parossistico. Sarebbe stato altrettanto efficace a sostegno della propria causa. Eppure, ha scelto diversamente: ha limitato la visione di quelle immagini ad alcuni giornalisti, capi di Stato e diplomatici.

Perché? Perché esiste un’etica, una decenza, una morale che impedisce a uno Stato civile di trasformare in spettacolo tanto, traumatico, orrore.

Il grande archivio di Israele

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