Esteri

La storia dello Stato palestinese, romanzo “a omissioni” del Corsera

di HaKol - 29 Luglio 2025 alle 17:31

Sul Corriere della Sera del 27 luglio Andrea Nicastro, che conosce bene il Medio Oriente, pubblica una storia dello Stato palestinese, corredata da mappe ma alquanto romanzata. Vale la pena di ripercorrere questa storia precisando le molte omissioni, interpolazioni e leggende che inquinano il discorso su Israele e Palestina. Per chiarire, il nome Palestina non deriva dalla terra dei Filistei (quelli che tagliarono i capelli e accecarono Sansone, tanto per capire il genere), e dunque apparentemente un antico popolo stanziale precursore degli attuali Palestinesi. Falastín è invece una sineddoche per la zona geografica chiamata Plàshet, ossia un breve tratto della costiera sud-orientale del Mediterraneo da Ashdod a El-Arish, inclusa Gaza. La radice etimologica (palàsh) si può tradurre “invasione”, in nome dei “popoli del mare” giunti in antichità dalle isole greche, dalla Turchia, e forse anche dalla Sardegna.

Il discorso moderno e contemporaneo sull’assetto del Medio Oriente è molto influenzato dalle continuità storiche e dalle identità di gruppo, vere o immaginate. Ma politicamente parte dagli accordi fra le potenze coloniali, Inghilterra e Francia, nel 1916, con l’invenzione di stati-mosaico composti da etnie e religioni in perenne conflitto, come il Libano, la Siria, l’Iraq. Nel 1917, la dichiarazione Balfour precisava la posizione britannica a favore di un focolare ebraico in Palestina. Nell’aprile 1920, la Conferenza di Sanremo, dove l’Italia era rappresentata dal Presidente del Consiglio Francesco Saverio Nitti, codificava il sistema dei Mandati sulle rovine dell’Impero Ottomano dopo la prima guerra mondiale. Nell’aprile del 1921, l’Inghilterra scorporava la parte del territorio della Palestina a est del fiume Giordano, creandovi l’Emirato di Transgiordania per compensare la dinastia Hascemita spodestata dalla sua storica sovranità sulla Mecca dalla dinastia Saudita.
Nel luglio 1922, la Società delle Nazioni stabiliva il Mandato Britannico sulla parte della Palestina a occidente del fiume Giordano.

Il testo stabiliva che “le principali Potenze hanno accettato che il Mandato sia responsabile della messa in atto delle dichiarazione fatta originalmente il 2 Novembre 1917 dal Governo di Sua Maestà Britannica […] in favore della creazione in Palestina di un focolare nazionale per il popolo ebraico. […] Il Mandato avrà la responsabilità di porre il paese in condizioni politiche, amministrative e economiche tali da assicurare la creazione del focolare nazionale ebraico […] e lo sviluppo di istituzioni di autogoverno, oltre che la salvaguardia dei diritti civili e religiosi di tutti gli abitanti della Palestina senza distinzione di razza e di religione. […] L’Amministrazione della Palestina […] faciliterà l’immigrazione ebraica in presenza delle condizioni adatte in collabrazione con l’Agenzia Ebraica”. Non ci sono dubbi, dunque, sulle ragioni della creazione di un’entità geopolitica chiamata Palestina su un territorio in cui, certo, prevaleva una maggioranza musulmana ma dove la presenza ebraica era ininterrotta da millenni. Nel 1922 la Shoah non era ancora avvenuta. Nel novembre 1947, l’assemblea Generale delle Nazioni Unite deliberava a grande maggioranza che “il Mandato terminerà al più presto possibile ma in ogni caso non oltre il 1° agosto 1948. […] Uno Stato Arabo e uno Stato Ebraico indipendenti e il Regime Speciale Internazionale per la città di Gerusalemme […] cominceranno a esistere due mesi dopo il completamento dell’evacuazione delle forze armate della potenza mandataria ma in ogni caso non oltre il 1° Ottobre 1948”.

La sera del 14 maggio 1948, David Ben Gurion proclamava l’indipendenza dello Stato Ebraico – “che si chiamerà Stato d’Israele” – ma a nessuno veniva in mente di proclamare lo Stato Arabo – magari aggiungendo “che si chiamerà Palestina”. Sarebbe bastata questa semplice dichiarazione di volontà sovrana da parte palestinese per creare una realtà geopolitica completamente diversa, perfino un confronto diretto USA-URSS sull’angusto territorio fra il fiume Giordano e il mare Mediterraneo (anche se l’URSS nel 1947 votò a favore e fu la prima a riconoscere lo Stato d’Israele). In seguito alla guerra del 1948-1949, il territorio del designato Stato Arabo fu occupato dall’Egitto (a Gaza), dalla Transgiordania (in Cisgiordania), oltre che da Israele (in molte zone di confine tra le due parti). Nessuno nel mondo arabo pensava allora che gli arabi palestinesi avessero un ruolo qualsivoglia in questa vicenda.

L’autodeterminazione palestinese fallì all’origine per carenza di maturità evolutiva o perfino per alterità nei confronti del concetto di Stato moderno autonomo e indipendente, basato su un’identità positiva del proprio essere sociale. Il principio fondante dell’essere comune palestinese fu, invece, fin dall’inizio l’opposizione a Israele, la resistenza violenta attuata contro la mera esistenza dell’altro. Questa strategia, promossa da un attore politico dopo l’altro, fu poi codificata da Hamas nella sua carta costituente del 1988, con gli espliciti riferimenti ai Protocolli dei Savi di Sion e l’aperto invito a uccidere l’ebreo (non solo l’israeliano) “che si cela dietro i sassi e gli alberi”. A queste pulsioni di evidente ispirazione nazista si sono associate nel corso dei decenni altre forze integraliste islamiche, sunnite o sciite – vedi l’orologio segnatempo della distruzione di Israele in piazza Palestina a Teheran. Nel giugno 1967 la Guerra dei sei giorni non “ci fu”, come direbbe Nicastro. Fu invece un tentativo del presidente egiziano Gamal Abd-el Nasser di distruggere Israele e di “gettare a mare i sionisti”. Io vivevo dal 1966 a Gerusalemme, e la Casa dello Studente dove mi trovavo all’Università fu cannoneggiata dall’esercito della Giordania che si era messa in una sciagurata coalizione con l’Egitto. Vidi con i miei occhi le truppe israeliane risalire le colline di Ghiloh coi proiettili traccianti, e occupare la piazzola due kilometri a sud dove erano piazzate le batterie dell’artiglieria nemica. Ecco dunque il senso originale del “territorio occupato”, che doveva servire da pegno da restituire immediatamente in cambio del riconoscimento di Israele da parte dei paesi arabi. Che però non arrivò. Nessuno in Israele nel giugno del 1967 pensava a tenere i “territori occupati”. Vi furono invece i tre no di Khartoum. E allora il poeta nazionale Natan Alterman pubblicò il suo famoso manifesto: “Il pegno ce l’ha dato Dio, e noi non possiamo renderlo”.

Da allora si è svolta una perversa corsa a inseguimento fra il terrorismo dei movimenti palestinesi e il messianismo degli estremisti israeliani. Il terrorismo palestinese è stato il grande propulsore e alleato del crollo della sinistra in Israele, della nuova egemonia della destra, e dell’emergere di quelle schegge impazzite che sono “i ragazzi delle colline”, il concentrato del “colono” analfabeta e assassino. L’assenza di una società civile palestinese si manifesta nell’inesistenza di strutture politiche competitive di dialogo e di alternativa. Gli accordi di Oslo con il compianto Izhak Rabin hanno creato l’Autorità Palestinese. Al comando dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (liberazione da Israele dal fiume al mare) – dopo quell’inquietante figura di Yasser Arafat, egiziano di nascita – sta da 20 anni il senescente e corrotto Mahmoud Abbas (Abu Mazen). L’alternativa islamica fondamentalista di Hamas, sorta puntando sui servizi sociali a favore della popolazione, ha vinto le ultime elezioni del 2006, e infatti Ibrahim Haniye fu nominato brevemente Premier.

Ma nel 2007 la secessione di Gaza e l’uccisione dei locali funzionari dell’OLP, rendeva evidente l’incompatibilità politica e antropologica, e di fatto la guerra civile permanente fra Gaza e la Cisgiordania. Nicastro ricorda che per 19 anni i Palestinesi non hanno votato, ma dimentica di dire perché. Abu Mazen sapeva bene che se si fosse votato, Hamas avrebbe stravinto, e lui e i suoi seguaci sarebbero finiti. A Gaza, “la prigione a cielo aperto” ha visto la popolazione quadruplicare dal 1967 ad oggi. Uno strano genocidio. Eliminata la presenza israeliana nel 2005, in questi vent’anni i gazawi non hanno voluto o saputo sviluppare una società civile e una riforma socioeconomica. Gli imponenti aiuti internazionali hanno creato una rete sanitaria di discreta qualità e accesso quasi universale all’istruzione liceale. Le forniture alimentari erano sufficienti a sfamare tutti nonostante l’alto tasso di accrescimento naturale. L’elettricità e l’acqua sono state fornite per molti anni attraverso le reti israeliane. Ma Hamas ha sprecato miliardi di euro nel costruire fortificazioni sotterranee imprendibili, nell’acquistare e produrre armamenti da usare contro la popolazione civile israeliana, e nel progettare l’inaudito attacco del 7 ottobre 2023.

Il rettangolo di Gaza, chiuso su due lati dal confine con Israele e limitato dalla marina militare israeliana sul lato mediterraneo, avrebbe potuto sviluppare ottime relazioni di vicinato attraverso il quarto lato del confine con l’Egitto. Si è preferito invece il contrabbando di armi attraverso i tunnel. Anche l’Egitto, evidentemente, diffidava dei fratelli musulmani oltre la linea di confine di Rafah. Qual è la soluzione? La proposta dei Due Stati per Due popoli è morta il 7 ottobre. Oggi parlare di Stato Palestinese equivale a parlare di Stato Yugoslavo, che è morto con Tito. Ancora più vanesio e irreale è parlare dello stato unico binazionale. La soluzione politica oggi invece non può che essere lo scorporamento del problema nelle sue diverse componenti. A Gaza sarà possibile una forma di sovranità politica, purché gestita con la partecipazione dei paesi sunniti moderati, ma impossibile senza un massiccio coinvolgimento di capitali occidentali. Vista l’attuale erratica conduzione degli Stati Uniti sarebbe utile la presenza di un’Unione Europea, se questa entità geopolitica esistesse.

In Cisgiordania, dopo la dipartita inevitabile di Abu Mazen, sarà quasi impossibile evitare il bagno di sangue inerente alla lotta per la successione. La soluzione sarebbe dunque quella di una Palestina Ovest e una Palestina Est, similmente al Pakistan e al Banglasdesh, con l’India – in questo caso Israele – al centro. Una mente creativa, e molta buona volontà e capacità diplomatica, porterebbe anche alla creazione di una quarta entità geopolitica dei Luoghi Santi a Gerusalemme e a Betlemme, una specie di Città del Vaticano autogovernata, con lo statuto di osservatore all’ONU. Per fare questo ci vorrebbe una radicale trasformazione dell’anima politica, non visibile al momento attuale da nessuna parte. Ma servirebbe anche una radicale trasformazione del contesto mediatico e accademico che di questi tempi presenta sintomi di collasso sistemico.

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