Le Ragioni di Israele
L’antisemitismo è una nuova religione: fedeli devoti alla distruzione di Israele
di HaKol - 25 Luglio 2025 alle 13:00
La morale non ha bisogno di un’anima perché è frutto dell’evoluzione della nostra cultura, sosteneva il grande genetista Edoardo Boncinelli. La “morale” che fa da fondamento al sentimento antisemita, diffuso ormai come una metastasi nella nostra società, mescola, si può dire, alcuni “ingredienti” che hanno un fine unico: la costruzione coerente di un’ideologia totalitaria, intransigente e settaria che ha assunto ormai i connotati di una religione secolare che richiede fede assoluta, soppressione della critica e del dubbio, devozione totale. Con la conseguente adorazione di feticci simbolici e culto di personalità iconiche e funzionali alla diffusione di un credo che si nutre di topos sufficientemente superficiali e mai comprovati ma perfetti per diffondere il verbo.
Premesso che non serve far riferimento ad alcun complottismo perché la genesi di questo fenomeno è chiara come il sole, due domande, allora, restano, per così dire, sul tavolo: chi e perché? O, meglio, chi ha interesse o ricava un qualche profitto nel cavalcare, favorire o assecondare questo processo? Soprattutto, quali sono le ragioni che hanno portato all’emergere di questo fenomeno? La “sinistra”, orfana della questione sociale, abbandonata in modo acritico dopo le rocambolesche infatuazioni per terze vie blairiane e simili, ha abbracciato una scimmiottatura di un liberalismo. Privo delle evoluzioni e persino delle contraddizioni che costituiscono l’humus del pensiero liberale, il neoprogressismo “liberal” si è evoluto senza quelle radici che permettono a ogni prospettiva culturale, sociale e politica di esistere in un presente agganciato al passato.
L’operazione di sostituzione “in vitro” di una specificità identitaria con una nuova ha mutato gli aspetti di forma di un pensiero altro, come il superficiale culto dei diritti identitari. Una mutazione che ha finito per svuotarla della sua peculiare escatologia e missione per offrirne una nuova, rivendicativa, ribellistica, massimalista e apocalittica: la lotta millenaristica contro tutte le presunte ingiustizie di cui le minoranze di ogni latitudine sarebbero vittime. Una lotta tanto globale quanto generica verso l’unico grande colpevole, ossia l’Occidente, in tutte le sue forme e le sue espressioni. Il cortocircuito è tanto paradossale quanto efficace: questo nuovo umanitarismo ideologico è possibile solo in un contesto occidentale, come espressione di un senso masochistico di colpa, proprio per quella condizione di libertà, di dialogo, di confronto, di stato di diritto che già tutela, perlomeno nelle intenzioni, chi è discriminato o vittima di violenza. Per le stesse ragioni, la critica al sistema è tanto generica quanto inconcludente perché si nutre di un nemico sempre inafferrabile cui è facile addossare tutte le colpe perché non c’è mai contraddittorio.
Non si può portare sul banco degli imputati un oggetto indefinito, per la sua irriducibile complessità, come la civiltà occidentale. Ma sul piano simbolico funziona come il vessillo sotto cui collocare senza troppo sforzo o approfondimento, in un puzzle multiforme, il nemico che più serve a creare indignazione e compattare i ranghi: Israele, il grande satana globale, il complotto giudi-pluto-massonico. Oppure il capitalismo, l’impero americano, l’uomo bianco, il patriarcato, il fascismo eterno e via dicendo. Tutte funzioni intercambiabili di un costrutto ideologico che prende diversi nomi: woke, liberal progressismo, un umanitarismo emozionale. Oppure l’intersezionalità o le rivendicazioni identitarie sempre più settarie che si sono sostituite alla sacrosanta difesa dei diritti fondamentali e di quella dignità della persona che la sinistra di un tempo traduceva, con efficacia e lucidità, in una singola e potente lotta, la difesa dei lavoratori. La questione sociale ha lasciato spazio a un malsano e interminabile malpancismo dell’indignazione a chiamata che riempie le piazze, forse, e i titoli dei giornali, ma ormai poco le urne.
Spostare l’asse del conflitto dal concreto all’immaginario, al linguaggio, alle categorie formali è il miglior favore che si possa fare a ogni sorta di disegno reazionario. Senza scalfire di una virgola gli interessi e i piani di chi, in questa frammentazione, vede centuplicare i profitti. Ma urlare al pericolo sionista è più facile. Sta su tutto e non impegna. Ma tant’è.